Categoria: Arciconfraternita

Storia della Cavalleria

Cavalleria Medievale

 

 

STORIA DELLA CAVALLERIA

 

La classe guerriera si distingue fra il guerriero a piedi e il guerriero su un carro o a cavallo, giacché quest’ultimo è indice di un’élite fondata sul prestigio e sulla ricchezza. La valorizzazione dell’arma, del cavallo e di una casta dedita all’arte della guerra, porta lentamente alla creazione di una “nobiltà” guerriera che accompagna l’elaborazione di nuove tecniche di combattimento, di doveri, di diritti, di riti e di un codice d’onore specifico. L’antichità conobbe numerose forme cavalleresche. In Grecia (Spagna, Atene, Creta, Macedonia eccetera) la cavalleria è un’unità d’élite formata da cittadini fortunati capaci di provvedere al proprio armamento e occuparsi di un cavallo. Spesso essa sostituisce la guardia del re, come a Sparta (gli hippies), a Creta o in Macedonia con la cavalleria dei “compagni” del re (hetairoi), l’antica guardia nobile del capo supremo militare. All’epoca dei diadochi compare una cavalleria interamente corazzata, i catafratti, prefigurazione formale della cavalleria medievale. S’incontrano guardie reali a cavallo anche presso sciiti, ittiti, celti, in particolare la “cavalleria” nobile di Vercingetorige, che Cesare del De bello gallico chiama equites, e persiani, la famosa guardia del corpo di Ciro il Grande, i cui cavalieri erano muniti di piastroni con scaglie di bronzo. A Roma, il secondo ordine era formato dagli equites, i cavalieri, chiamati talvolta milites aurati per via degli speroni d’oro, simboli del loro stato, che ritroviamo ai piedi dei cavalieri medievali. La loro origine risalirebbe alla guardia a cavallo di Romolo, i celeres. Limitati nel numero, i cavalieri della Repubblica erano di solito reclutati in tutti gli strati sociali. Sotto l’Impero, diventare cavalieri presupponeva un reddito di 400.000 sesterzi. Erano concecssi loro alcuni privilegi: portare gli speroni, un anello, una tunica di porpora, mantenimento e cura del cavallo a carico dello Stato, posti riservati in manifestazioni pubbliche eccetera. All’epoca dei Gracchi, i cavalieri furono incaricati dell’amministrazione della giustizia e furono sottoposti a diversi obblighi: partecipazione a riti equini quali quello del 15 luglio, in cui cavalieri dovevano recarsi a cavallo al tempio di Marte, passaggio in rassegna da parte del censore ogni cinque anni, obbligo della cura del cavallo e delle armi ecc. Inoltre, un codice d’onore li obbigava, pena una degradazione ad esclusione dall’ordine, a condurre una vita pubblica e privata rigorosa, così come a mantenere le loro fortune. Tali principi, associati al ripristino delle armi virili legate alla consuetudine germanica e completati da precetti cristiani, costituiranno le basi della cavalleria feudale. Quest’ultima è l’erede diretta, attraverso l’antichità, del mondo protostorico degli indoeuropei con l’istituzione, sin dall’età dei metalli e perfino nel neolitico, della tripartizione funzionale della società in clero, guerrieri/nobili e lavoratori i futuri oratores, bellatores, laboratores della società medievale.

 

 

Origini della Cavalleria

La cavalleria ha origini germaniche tuttavia dal XIV secolo furono avanzate alcune ipotesi senza grande successo. Le principali teorie, che non evidenzieremo, furono tre: l’origine egiziana, l’origine romana, l’origine arabo-musulmana. Oltre le tre teorie appena esposte quella che, oggi, rimane largamente accettata dagli storici è la teoria germanica. Essa proviene da Tacito che, nella sua Germania, descrive una cerimonia nel corso della quale un adolescente nato libero riceve la framea (lancia) e lo scudo, lasciando l’infanzia per diventare adulto, quindi guerriero. Tacito allora conclude: questo è l’abito virile di quei popoli; questo è il primo onore della loro giovinezza. La comparsa di tale rito di passaggio con le più antiche vestizioni conosciute (XII secolo) è sorprendente: matrice simbolica comune, stessa brevità virile stessa natura profana del rito. La forma religiosa è ancora scarsa, mentre l’aspetto spirituale è presente nell’intimo guerriero. Nata nei secoli XI-XII, la cavalleria è scaturita dalla funzione di due gruppi dominanti delle società carolingia: il gruppo della nobiltà fondiaria, in cui la fortuna e i privilegi si trasmettono in modo ereditario, ma la cui vocazione non è militare, e il gruppo di guerrieri professionisti liberi, “uomini nuovi” cresciuti nella casa del signore. L’origine di tale cambiamento si deve alla crescita del prestigio delle armi, rafforzato da quello della vestizione valorizzata dalla Chiesa. Da allora in poi la cavalleria è inglobata nel vassallaggio, e si generalizza l’uso secondo il quale, per essere vassallo, bisogna essere cavaliere armato con la vestizione. La parola miles designa contemporaneamente il cavaliere, il combattente a cavallo, in nobile e il vassallo, il quale nominato miles noster dal suo signore. I privilegi della nobiltà divennero quelli della cavalleria e viceversa: privilegi militari (portare spada ecc.), fiscali (esenzione dalle imposte pubbliche, dalle consuetudines ecc.), giuridici (diritto processuale, giudizio dei pari ecc.) che venivano trasmessi ai figli del cavaliere.

 

 

Le fasi dell’investitura cavalleresca

La vestizione primitiva (IX-X secolo) rimane vicina al rito germanico, con una base sostanzialmente laica: il cavaliere riceve le armi, soprattutto la spada, senza una grande cerimonia, con raccomandazioni etiche e una breve preghiera. Il luogo po’ essere il cortile di un castello, a piazza di una città o un campo di battaglia. A partire dal X e XI secolo, aumentano la ritualizzazione e la sacralizzazione nella Chiesa, compaiono le prime forme di benedizione della spada, mentre si precisano le prescrizioni etiche. Il contenuto rituale deve molto alle liturgie utilizzate per le incoronazioni reali o imperiali. La preghiera d’investitura chieda a Dio di benedire la spada del cavaliere “perché essa si elevi a difesa della chiesa, delle vedove, degli orfani e di tutti i servi di Dio contro il flagello dei pagani”. Essa gli viene consegnata, dopo aver poggiato sull’altare durante la vigilia d’armi, dall’officiante in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ai quali si associano San Giorgio e San Michele. Tuttavia il rito rimane ancora semplice, poiché conserva la sobrietà virile delle origini. Nel XIII secolo la cristianizzazione del rito è totale: vi è la nascita di un rituale complesso, come rivela il pontificale del vescovo di Mende, in cui compare sotto forma di ordinazione un ottavo sacramento, dal contenuto profondamente etico e spirituale. La vestizione è quindi posta sullo stesso piano dell’ordinazione del prete. Il rito si compone di tre parti: la prima di tipo preparatorio (il digiuno, la confessione, la vigilia delle armi, ecc.); la seconda di consacrazione (la messa, la comunione, la benedizione, la consegna della spada benedetta, il bacio di pace ecc.); la terza la parte festosa. La vestizione comporta anche conseguenze determinanti su tre piani: giuridico (il nuovo cavaliere accede al mondo degli adulti e acquisisce maturità legale), sociale (il cavaliere sfugge alla tutela paterna e diventa un individuo dotato d’indipendenza totale), militare (può alzare bandiera e pennone, essendo stato investito del cingulum militiae).

 

 

Cavalleria e Nobiltà

Si deve far presente che cavalleria e nobiltà non hanno sempre coinciso. Fino al XII secolo non vi era confusione tra nobiltà e cavalleria, poiché quest’ultima non era ancora riservata alla prima. Esistono differenti livelli: l’alta nobiltà (nobilissimi milites) le cui origini risalgono a potenti e antiche stirpi di combattenti a cavallo; la media nobiltà (castellani e loro vassalli), i nobili e potenti cavalieri, che si assimilano progressivamente con la nobiltà nell’XI secolo; i semplici cavalieri, servitori armati dei precedenti (milites castri, gregarii, satellites, ecc.) che sono vassalli senza terre proprie, proprietari di allodio, vassalli rovinati, cavalieri servi dell’Impero.

 

 

La perdita dello Stato Cavalleresco

La grandezza cavalleresca è accompagnata da una contropartita infamante: la possibile perdita dello stato cavalleresco o degradatio militaris, talvolta chiamata “degradazione delle armi e nobiltà”. Essa viene inflitta ai cavalieri che hanno contravvenuto alle leggi non scritte ma reali della cavalleria, cavalieri “di cattivo comportamento, spergiuri e felloni” (crimini puniti con la morte nel medioevo, poiché turbavano l’armonia divina della società e implicavano la duplicità “diabolica”) oppure colpevoli del crimine di lesa maestà. Si possono aggiungere gli atti gravi (saccheggi di edifici religiosi, rinnegamento della fede cristiana ecc.).
Il motivo principale della perdita della cavalleria è legata soprattutto ad atti di tradimento militare e feudale.

 

 

Il Modello Cavalleresco

Padrone dei beni e degli uomini, almeno per i più potenti di loro, il cavaliere ha il dovere di essere il modello vivente di ciò che un uomo, sopratutto un guerriero, il quale conduce una “retta, bella e santa vita”, può produrre di più vicino alla perfezione.

 

Il Simbolismo dell’Armamento del Cavaliere

Ci limiteremo alle corrispondenze avanzate da San Paolo, che furono quelle del medioevo. Egli scrisse: “Per il resto, attingere forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma […] contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio […]. / State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagandare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello spirito, cioè la parola di Dio”. Queste corrispondenze paoline furono ristrutturate dagli esegeti medievali, che spesso diedero loro un contenuto soggettivo, e fu aggiunta una settima per metterle in accordo con le sette virtù cardinali e i sette doni dello Spirito.

Riportiamo qui di seguito le corrispondenze più comuni:

•    Elmo: la speranza, l’intelligenza , il pudore.
•    Corazza: la prudenza, la pietà, la protezione contro il vizio e l’errore.
•    Manopole: la giustizia, la scienza, il discernimento, l’onore.
•    Scudo: la fede, il consiglio, la protezione contro l’orgoglio, la dissolutezza e l’eresia.
•    Lancia: la carità, la saggezza, la retta verità.
•    Speroni d’oro: la temperanza, il timore di Dio e lo zelo della salvezza.
•    Spada: la forza, la parola di Dio, il coraggio, la potenza.

 

La Guerra, il Potere, il Prestigio

La cavalleria ha inciso profondamente nell’immaginario della cultura occidentale: ne è addirittura divenuta un’asse portante, uno di quegli elementi che non conoscono tramonto, destinato a rinascere dopo ogni passeggera eclissi. Eppure fin dal XII secolo si era annunciata la morte della cavalleria, col racconto della fine delle consuetudini della Tavola Rotonda. I cavalieri della realtà (con i loro problemi economici, le loro miserie quotidiane, le questioni di ingaggi mercenari, il loro correre di torneo in torneo alla ricerca di premi da mettere poi in pegno, oppure in vantaggiosi matrimoni…) non raggiunsero mai la perfezione dei loro modelli neanche ai temi d’oro della cavalleria. Tempi d’oro che, poi, non si sa bene neppure quando storicamente situare: pur ammesso che questo sia un problema plausibile sotto il profilo storico. Dall’altra parte la storia fiorentina conosceva una vicenda cavalleresca almeno dal secolo XII, che in parte era simile nella koiné cavalleresca europea. I milites (nel senso di combattenti a cavallo forniti di armatura pesante e di uno status legittimato da un rito iniziatico che li rende parte di una “corporazione” di guerrieri alla quale si accede per cooptazione) compaiono per tempo nella penisola italica come altrove. Possiamo individuarli già con chiarezza nell’XI secolo e a partire dalla età del XII cominciano (tanto nel regnum Italiae quanto nel regno siculo normanno) a essere oggetto di pesanti limitazioni dell’accesso alla dignità cavalleresca, diritto al quale tende a venir conferito solo a quelli che già potevano vantare in famiglia dei cavalieri. Si delineava pertanto la tendenza a restringere l’aristocrazia cavalleresca, che tate era di fatto, sino a farla coincidere con un’aristocrazia che tale fosse anche di diritto, una “nobiltà”. Ma il mondo cittadino, dove i discendenti della piccola e media aristocrazia militare provenienti dal contado si incontravano con il resto del ceto dirigente urbano dei boni viri, era restio alle chiusure di diritto. La dignità cavalleresca divenne con il Duecento indispensabile per accedere a cariche come quella del podestà e di Capitano del Popolo. C’erano vere e proprie dinastie (specie in regioni povere e rurali, come le Marche) di piccoli nobili che si può dire vivessero facendo il funzionario forestiero di professione nelle città comunali; e si creava così una complessa rete di consuetudini e di clientele. La funzione culturale che questi reggitori temporanei di governi assolsero anche involontariamente fu di contribuire alla diffusione e circolazione delle idee e dell’etica della cavalleria; valori questi di cui si occupa anche la trattatistica di regimine potestatis. Per definizione l’etica cavalleresca era ritenuta un qualcosa di gestibile a livello personale e il cavaliere era nelle sue espressioni letterarie una figura errante, un solitario. Ma la realtà era ben diversa: la condizione cavalleresca era profondamente sociale. Il cavaliere non affrontava la vita di professionista della guerra se non in “comitive”, o quanto meno scortato da un sia pur modesto seguito. Nelle città, la cavalleria era un affare di famiglia; e quando nella Firenze duecentesca le istituzioni popolane trionfanti porranno il cavalierato tra i segni caratteristici dell’appartenenza al ceto magnatizio, avranno ben le loro ragioni legate non tanto al rigore giuridico quanto ala realtà e allo stile di vita, al modo di comportarsi. Nelle città toscane come altrove tra il XII e il XIII secolo, il fattore discriminante tra l’essere e il non essere magnati era quindi il sapere e il poter combattere a cavallo, l’esercitare il diritto alla vendetta e alla guerra privata “… E parea la terra sua”, come diceva Dino Compagni del cavalier Corso Donati. Prima di tutto occorre chiarire un problema delicato che è, al tempo stesso, di terminologia e di periodizzazione. Parlare di cavalleria “comunale” non è lo stesso di parlare di cavalleria “cittadina”: non, almeno, quanto all’origine e alla provenienza dei milites e delle famiglie all’interno delle quali la dignità cavalleresca era di fatto consueto che si tramandava di generazione in generazione. Diciamo dunque cavalleria “comunale”: quanto alle sue origini e alla prima parte della sua storia, cioè all’XI e al XII secolo, solo alla fine di quest’ultimo, e meglio ancora nel successivo, essa si presenterà dotata di una sua fisionomia meglio precisabile, anche se certo non statica. Dobbiamo tener presente che la militia può avere varie origini. Nella sostanza diremmo che esse sono due: quella “feudale” dei milites inurbati provenienti dal contado; e quella invece, pur propriamente “cittadina”, dei milites in quanto combattenti a cavallo tenuti a mantenere a totali o parziali loro spese un equipaggiamento adeguato per la guerra cioè cavallo e armamento pesante. Le due qualificazioni di miles nobilis da un lato, di miles pro communi dall’altro, pur distinguendo due livelli di cavalierato, indicano peraltro due tipi di funzione congiunti da un’omogeneità di fondo: essi costituiscono due livelli della medesima militia. Il dato qualificante di tale omogeneità era appunto la militia: il combattere a cavallo, che non era solo l’espressione di una certa disponibilità economica e di una capacità tecnica cui potevano affiancarsi riconoscimenti e prerogative sul piano giuridico, ma anche la base sostanziale di un”genere di vita” e d’una visione del mondo appoggiata a un contesto culturale reciso fatto di riti e di contenuti etico-rappresentativi. La militia dei comuni toscani muta parecchio nella struttura sociale delle sue componenti e nel suo peso rispetto alla vita pubblica fra XI e XIV secolo: in essa tuttavia permane la distinzione fra chi è cavaliere e chi non lo è, fra chi detiene la dignità cavalleresca e chi non la detiene. Non va dunque sottovalutata né ridotta a pura indicazione di una stratificazione sociale la contrapposizione tra milites e pedites, sinonimo di quella, che appare più chiara e significativa, fra nobiles o maiores, e populus o minores. Sotto il profilo militare il populus combattente a piedi: il che è un combattere in modo subalterno segno appunto di una condizione sociale inferiore. Chi militat lo fa a cavallo: e la traduzione volgare di miles con la parola “cavaliere” lo conferma in pieno. Il discorso torna quindi per forza di cose sugli addobbamenti e sul loro valore, ancor prima che giuridico, mentale. L’addobbamento doveva sancire con il suo rituale l’appartenenza a un gruppo qualificato di un comune genere di vita e da comuni prerogative. Ma quando nel medioevo comunale venne a cessare, con il primo Trecento, l’identificazione fra nobiles e militia, il cingolo militare si rese disponibile anche per la gente di origine popolana. Il desiderio di armare e di essere armati cavalieri nasceva sempre e comunque da una profonda ammirazione per le glorie della cavalleria: per quanto si trattasse di glorie nella realtà assai raramente rinverdite dai mercanti e dai banchieri Déguisés en chevalier che indossavano il vaio e calzavano gli sproni dorati nella Firenze dei banchieri, dei mercanti e degli imprenditori.

 

 

Verso una Rifeudalizzazione Mentale

La stretta oligarchica imposta alla politica fiorentina a partire dagli anni Ottanta del XIV secolo arrestò  l’inflazione della dignità cavalleresca che era stata tipica del circa mezzo secolo tra il 1330 e il tumulto dei ciompi. Ora, l’esser cavalieri tornava a costituire uno status symbol preciso che, se non aveva più niente a che vedere con l’appartenenza al vecchio ceto magnatizio, seguiva in cambio l’adesione a un modo di vivere e di pensare, la concreta possibilità di spendere e una volontà di impegnarsi nella vita politica, diplomatica e sociale; ora significava entrare in un ambito elitario e dover condurre una vita adeguata al rango ostentato. Del resto, se il conseguir la dignità cavalleresca non era più cosa alla portata di molti com’era stato nel pieno Trecento, sugli insigniti della cintura di cavaliere forte si faceva soprattutto sentire il controllo della Parte Guelfa garante fra l’altro, se non di una “chiusura”, quanto meno di una severa limitazione dell’accesso di nuove famiglie alla cerchia dei casati oligarchici e pertanto del contenimento della mobilità sociale e della salvaguardia delle posizioni politiche acquisite.

 

 

Far Cavalieri a Firenze

Il significato dell’ordine cavalleresco. Secondo alcuni la nobiltà medievale e moderna si sarebbe configurata, al suo nascere, proprio col fatto che a partire da circa la metà del XII secolo si era profilata un po’ in tutta Europa la tendenza alla “chiusura” del ceto cavalleresco. I milites, i cavalieri, erano quelli che potevano e sapevano combattere a cavallo, pesantemente armati, all’interno delle comitive guerriere al servizio di questo o di quel signore. Per far un cavaliere e mantenerlo efficiente occorrevano un lungo tirocinio avviato già sin dall’infanzia, un continuo addestramento e soprattutto un cospicuo gruzzolo di denaro sufficiente a provvedere alle copiose spese per le armi, i cavalli e il mantenimento di un pur modesto seguito. In un certo senso il sistema feudale si era andato strutturando proprio per assicurare anzitutto la sopravvivenza e la sicurezza: quindi manteneva e sosteneva quel ceto cavalleresco che ne costituiva la difesa per quanto a ciò fossero connessi caratteri di arbitrio e di violenza. Ai cavalieri si richiedevano doti fisiche quali la forza il coraggio e la destrezza, il cui livello era controllato per mezzo del continuo esercizio cui essi si sottoponevano. Era poi necessario un sistema socio-economico che provvedesse al mantenimento dei guerrieri: e nel corso XII secolo taluni mutamenti impostisi nel panorama economico avevano messo in crisi l’intera compagine feudale. In tali condizioni i monarchi del tempo avevano dovuto restringere le norme di annessione alla dignità cavalleresca. Secondo la tradizione, infatti, poteva accedere al cavalierato chiunque dimostrasse di essere degno; ma da circa la metà del XII secolo solo gli appartenenti a famiglie che vantassero già tra i loro membri dei cavalieri avevano a loro volta il diritto di conseguire la cintura e gli sproni dorati, simbolo della dignità cavalleresca. Fu nel regno di Sicilia, in quello di Inghilterra e nell’impero germanico che queste limitazioni si imposero per prime.

 

Storia Cavalleria Comunale

Si potrebbe suddividere la storia della cavalleria comunale, tra XII e XIII secolo, in tre fasi distinte:

1.    La prima si aprì verso la fine del XII secolo, con la chiusura dell’accesso alla dignità cavalleresca. Fino ad allora, nella pratica, qualunque uomo libero, dotato di forza fisica e ricco quanto bastava per mantenere armi e cavalli poteva ambire a essere cooptato nella militia, la quale non era né un sodalizio chiuso garantito da norme giuridiche né una corporazione professionale. Si diventava cavalieri quando tali si era “consacrati” da altri cavalieri, cioè da altre persone che avevano a loro volta ricevuto questo tipo di consacrazione. L’addobbamento com’era detta in italiano questa cerimonia (dal germanico dubban “colpire”, latinizzato in dubbare, da cui il francese antico aduber), aveva un carattere laico: la sua sacralità era amministrata da guerrieri e non includeva alcun ricorso a pratiche sacramentali amministrate dal clero. Soltanto la fine del XIII secolo la Chiesa – nell’ambito della quale pur si benedicevano solamente dall’Alto Medioevo le armi destinate ai principi e ai novi milites, così come si benedicevano gli arnesi da lavoro, i campi, i raccolti dei contadini e tutto quello che doveva esser messo al riparo dal Maligno – accolse definitivamente nel novero dei sui sacramentalia l’ordinatio novi milites, cioè l’addobbamento. Fino alla metà del XII secolo aveva avuto valore il principio della cooptazione, sulla base della quale ogni cavaliere poteva creare un nuovo cavaliere a seguito di una semplice cerimonia principalmente costituita da due gesti: primo, la consegna della spada appesa ad una cintura; secondo, un colpo dato con il palmo della mano o con il piatto della lama d’un altra spada tra la spalla e la nuca (la collée, la “collata”, la “giuttonata” o la “gotata”) e accompagnato da un abbraccio. Ma con il trascorrere del tempo i sovrani si erano appropriati del diritto di far cavalieri: già negli anni Quaranta del XII secolo il vescovo Ottone di Frisinga, parente e biografo di Federico I, si stupiva che ne comuni lombardi si facesse cavaliere chiunque, senza badare alla condizione sociale. La pratica denunziata da Ottone, che a noi potrebbe sembrare più “moderna”, era in realtà arcaica: le aristocrazie cittadine del Regnum Italiae erano restate fedeli al principio della cooptazione di nuovi cavalieri, praticamente ignorando la chiusura del ceto militare.

2.    La seconda fase del processo si aprì quando, nell’ultimo quarto del XIII secolo, le organizzazioni popolane degli imprenditori, dei banchieri, dei mercanti e dei produttori cittadini contesero e strapparono nelle città il potere ai rappresentanti del ceto magnatizio, i quali erano in parte discendenti delle vecchie famiglie di rango militare che possedevano beni immobili in città e nel contado e di quelle schiatte consortili che attorno ad essi si erano costituite. Ora, dato che la dignità cavalleresca era intesa come segno distintivo ed esclusivo di quei casati, l’esser cavaliere o avere all’interno della propria famiglia qualcuno insignito tale significava appartenere ai magnati: per questo, con gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella del 1293, chi fosse insignito della dignità cavalleresca era allontanato da taluni organi della partecipazione al governo comunale. Tuttavia l’esser cavaliere era necessario per accedere ad alcuni pubblici uffici, quali quello del Podestà o di Capitano del Popolo. D’altra parte il nome stesso della cavalleria, il fascino delle imprese ad essa legate e il fasto delle cerimonie d’addobbamento erano un richiamo molto forte er molti esponenti dei ceti emergenti di origine imprenditoriale o mercantile i quali, benché detentori della ricchezza mobile e immobile, erano privi di un passato glorioso o comunque di una tradizione familiare cui rifarsi. Essi cercavano di imitare lo stile di vita del ceto magnatizio; ambivano quindi indossare la cintura e a calzare gli sproni dorati di cavaliere e a condurre un genere di vita immerso nel lusso e nel fasto. 

3.    La terza ed ultima fase della storia della cavalleria comunale corrisponde pertanto all’approvazione da parte del Popolo del diritto di far cavalieri in deroga alle chiusure giuridiche sostenute dalla normativa imperiale. In Firenze, i “cavalieri di Popolo” si affiancarono a quelli della Parte Guelfa, l’organizzazione che garantiva la fedeltà di Firenze alla linea politica del papa e della monarchia angioina di Napoli e nella quale esponenti delle vecchie famiglie magnatizie guelfe figuravano accanto a rappresentati del Popolo Grasso della fazione cosiddetta “guelfo-nera”. Il Popolo e la Parte Guelfa finirono nel corso del Trecento col pretendere di essere de facto – insieme al Comune – le fonti della dignità cavalleresca. Tale pretesa fu custodita e difesa molto gelosamente. Di frequente la dignità era conferita a giovani di ricche e di illustri famiglie fiorentine da personaggi esterni di alto lignaggio, come re o principi: quando ciò accadeva, il neo cavaliere doveva richiedere al Comune i riconoscimento del suo nuovo titolo e giurare fedeltà alla magistratura fiorentina affinché la dignità conferita avesse valore anche nell’ambito fiorentino. In questo periodo la città la fazione appaiono strettamente connesse. Nel corso del XIV secolo, ai valori originari si aggiunse il rapporto di lealtà cavalleresca verso il re o verso il principe. Al pari di queste monarchie, anche le città comunali si erano ormai assunte il potere di elargire la dignità cavalleresca pretendendo in cambio che la fedeltà alla patria (fedeltà al ceto dirigente della fazione egemonica) divenisse a sua volt un valore cavalleresco. Detto questo si deve analizzare quali erano i luoghi dell’investitura cavalleresca. Se nei regni le cerimonie avvenivano in chiesa e il novello cavaliere era addobbato presso il pulpito: luogo dove si predicava e si mostravano le reliquie, quindi adatto alla presentazione alla popolazione del nuovo miles. Nelle città comunali abbiamo spesso delle eccezioni e anche a Firenze spesso al posto del pulpito c’era un parallelo laico. Gli addobbamenti avevano spesso luogo alla “ringhiera”, cioè alla balaustra del palazzo dei Priori, nel caso si prendesse il titolo di cavaliere dalla Signoria, ma anche il Comune, il Popolo e la Parte Guelfa conferivano il titolo equestre. Per quel che riguarda la cerimonia di addobbamento a Firenze le notizie le riceviamo da Franco Sacchetti, vissuto nel XIV secolo, e da Francesco Filarete, vissuto nel XV secolo. Grazie ai loro scritti sappiamo che a Firenze alla cerimonia il cavaliere andava vestito di “una vesta verde con maniche larghe foderata di pelle si gli gli è di verno, et le maniche e ‘l sopraspalle di nastro d’oro. La berretta verde o di panno o di drapo, con una ghirlanda d’ulivo con qualche foglia dorata sopra la berretta. Le calze verde solate. La cintura verde si seta. La detta veste à essere cinta al cavaliere con uno bello stochetto a lato”.

 

 

 

 

parte guelfa definitivo per sfondi bianchi

 

 

Formazione Culturale

Dante liber

 

 

FORMAZIONE CULTURALE

 

Per aderire pienamente all’Arciconfraternita è necessario ricevere l’investitura a Cavaliere o Dama di Parte Guelfa, dopo specifico percorso formativo culturale, etico e religioso disposto dal Consiglio di Credenza col contributo dell’Arcidiocesi di Firenze e del Consiglio Feste e Tradizioni Fiorentine. Divengono membri della Parte Guelfa coloro la cui domanda di ammissione sia definitivamente accettata con voto unanime dal Capitani di Parte Guelfa ed è necessario che ciascun aspirante sia presentato da due padrini. I requisiti per appartenere alla Parte Guelfa sono: praticare vita cristiana, aver compiuto il diciottesimo anno di età, essere moralmente incensurato e tenere un comportamento corretto ed educato, non far parte di associazioni o movimenti in contrasto con la morale cristiana ed aver corrisposto le tasse di ammissione. Gli aderenti, una volta scelto il Quartiere di appartenenza, non potranno mai più cambiarlo. Solo il Consiglio di Credenza potrà determinare, in via eccezionale, modifiche di appartenenza dei membri. Ad ogni singolo aderente sono richiesti, per il ruolo che riveste ed in quanto rappresentante della città di Firenze e della Parte Guelfa, comportamenti ed atteggiamenti seri ed adeguati. Qualora ciò non si verificasse lo stesso sarà soggetto a sanzioni da parte del Consiglio di Credenza come previsto dal presente statuto. La Parte Guelfa partecipa al suffragio, alle esequie ed alla sepoltura dei propri membri. Le attività di volontariato sono prestate a titolo personale, spontaneo e gratuito.

 

 

parte guelfa definitivo per sfondi bianchi

Sedi

Parte Guelfa sigillo


SEDI

 

Palagio di Parte Guelfa 4

PALAGIO DI PARTE GUELFA

L’Arciconfraternita ha sede istituzionale presso il Palagio di Parte Guelfa in Piazza di Parte Guelfa 1 a Firenze ed opera nell’ambito territoriale dell’Arcidiocesi di Firenze con potestà di istituire Confraternite in ogni Diocesi della Chiesa Cattolica. Il Palagio dei Capitani di Parte Guelfa è un vasto complesso monumentale il cui nucleo storico è situato nel cuore di Firenze e fu sede del quartier generale dell’Ordine di Parte Guelfa, ovvero del partito papale di Firenze. Ogni anno vi si svolgono le Investiture Solenni e la Festa delle Insegne di Parte Guelfa.

 

 

Palazzo Borgherini Rosselli del Turco firenze

PALAZZO BORGHERINI ROSSELLI DEL TURCO

L’Arciconfraternita ha sede didattica centrale presso il Palazzo Borgherini Rosselli del Turco in Borgo Santi Apostoli 19 a Firenze, sede della European School of Economics, edificio storico commissionato nel 1507 dalla famiglia Borgherini a Baccio d’Agnolo su terreni acquistati dagli Altoviti e sull’ultima porzione esistente del cimitero del Limbo. Il Palazzo, completato nel 1530, è costruito a ridosso dell’antica chiesa di Santi Apostoli. Oltre ai corsi formativi annuali, la Parte Guelfa vi realizza le Adunanze Generali.

 

 


ZOWORKING

L’Arciconfraternita ha sede didattica multimediale presso ZoWorking in via Bruschi 128 a Sesto Fiorentino, modernissimo centro polifunzionale concepito e realizzato da Plast Pack Packaging, azienda della famiglia Caselli, leader nel settore della logistica, del packaging e dell’e-commerce. Si tratta di un complesso innovativo a livello tecnologico che, oltre alle postazioni di lavoro, include sale riunioni, spazi per eventi, sfilate e convention, showroom, aree per la formazione, un bar ristorante e due reception.

 

 

 

Visarno

SCUDERIE DI PARTE GUELFA

L’Arciconfraternita ha sede operativa pressole Scuderie di Parte Guelfa all’Ippodromo del Visarno gestito dal concessionario Sanfelice della famiglia Meli. Il più grande impianto ippico fiorentino nacque nel 1847 a breve distanza dai prati del Quercione, dove si svolsero le prime gare equestri a Firenze ed ebbe la funzione di catalizzatore per la passione genuina dei toscani verso il cavallo e le corse. L’impianto ha attraversato poco meno di due secoli di storia, di guerre e di trasformazioni socio-culturali profonde. Firenze e la Toscana possono esser considerati un’autentica culla dell’ippica italiana.

 

parte guelfa definitivo per sfondi bianchi

 

Formazione Marziale

 

Paolo-Uccello

 

FORMAZIONE MARZIALE

 

La formazione marziale dei Cavalieri della Repubblica Fiorentina è curata da gruppi interni detti Squadroni organizzati in base alle mansioni e alle specialità praticate dall’Arciconfraternita, la quale raccoglie l’antica eredità equestre della Parte Guelfa, la più gloriosa delle magistrature fiorentine. Ogni Squadrone di Parte Guelfa è coordinato da un capo gruppo detto Lancia Spezzata. Gli Squadroni si occupano di realizzare i corsi di addestramento per la formazione dei Cavalieri e delle Dame di Parte Guelfa che svolgono funzioni a cavallo o a terra.

 

 

 

parte guelfa definitivo per sfondi bianchi

Storia della Parte Guelfa

Parte Guelfa primo cortile di Palazzo Vecchio

STORIA DELLA PARTE GUELFA

L’Ordo Partis Guelfae, ovvero l’Ordine dei Cavalieri di Parte Guelfa di Firenze, inizialmente denominato Societas Partis Ecclesiae, venne formalmente istituito grazie al beato Papa Clemente IV nel 1266 con la concessione dei sigilli e delle insegne papali. Privato delle proprie funzioni con il motuproprio granducale di Pietro Leopoldo I di Toscana del 22 giugno 1769, ma mai soppresso dall’autorità pontificia, venne riattivato, in base all’ordinamento repubblicano, con la denominazione di Arciconfraternita di Parte Guelfa, con atto pubblico del 25 marzo 2015, ricorrenza dell’antico Capodanno Fiorentino, in virtù dell’antico possesso di stato giuridico in Firenze, con la benedizione del cardinale arcivescovo Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, e con l’approvazione statutaria di Dario Nardella, sindaco della città. Parte Guelfa, grazie all’approvazione del nuovo statuto da parte dell’istituzione comunale avvenuta il 26 luglio 2015 si è aperta al mondo accogliendo aderenti di ogni nazionalità e confessione religiosa, ed è tornata in attività occupandosi in via preminente di salvaguardia ambientale e di tutela delle tradizioni equestri legate alle antiche manifestazioni fiorentine come la Giostra del Giglio, la Giostra di Madonna Libertà, la Fiorente, il Palio dei Cocchi, il Calcio storico, lo Scoppio del Carro ed altre. I membri dell’Arciconfraternita Parte Guelfa, sono denominati Confratelli e Consorelle e la sede istituzionale è stabilita presso lo storico Palagio dei Capitani di Parte Guelfa in Piazza di Parte Guelfa a Firenze.

Almeno sin dalla metà del Duecento – da quando cioè le fonti ne rendono possibile lo studio – le parti guelfa e ghibellina di Firenze appaiono come formazioni abbastanza aperte e permeabili tanto all’adesione di nuovi membri quanto all’abbandono degli antichi fautori. Dopo la caduta dell’ultimo regime ghibellino ed il definitivo passaggio del Comune al campo guelfo, avvenuto nel 1266, la fazione imperiale registrò, con ogni probabilità, un numero massiccio di defezioni, che la indebolirono progressivamente, trasformandola in una piccola comunità di fuoriusciti, senza alcuna chance di rivalsa e spesso proiettati verso interessi e terre lontani dalla città di origine. Nel 1280, tuttavia, gli accordi stipulati con i guelfi sotto l’egida della Chiesa e grazie alla mediazione del Cardinal Latino Malabranca consentirono il ritorno dall’esilio di molti ghibellini, dietro garanzia della cancellazione di bandi e condanne e del riconoscimento dei diritti politici, questi ultimi ratificati mediante l’instaurazione di un regime bipartitico. In effetti solo poche casate fedeli agli Imperatori – invero le più autorevoli e rappresentative – rifiutarono la pacificazione, preferendo vivere fuori dalla madrepatria e condurre una lotta senza speranza, anziché sottomettersi, mentre molte altre famiglie già loro alleate furono velocemente cooptate nel governo dei Priori delle Arti, espressione delle corporazioni bancarie mercantili e manifatturiere, che in breve tempo sostituì l’artificiosa ed effimera costruzione voluta dal Cardinal Latino. Il processo di assimilazione di guelfi e ghibellini in un nuovo ceto dirigente proseguì sino ai primi anni del Trecento, allorché la divisione del fronte guelfo tra bianchi e neri riportò in auge le antiche differenze. La vittoria dei neri, propugnatori di un guelfismo estremo, sui bianchi, maggiormente propensi all’intesa con i sostenitori dell’Impero, provocò la cacciata di questi ultimi ed il loro ulteriore avvicinamento ai ghibellini ribelli, cui fecero seguito violenze e devastazioni in molte zone del territorio fiorentino ed assalti contro castelli e centri fortificati. Sebbene il governo cittadino non corresse mai un vero pericolo di essere sovvertito, fuori dal circuito delle mura urbane la situazione rimase critica almeno sino al 1308, quando scomparvero gli ultimi esponenti radicali dei neri e la vita politica riacquistò una parvenza di normalità. Il progressivo sbandimento dei ghibellini ed il loro reintegro – seppur parziale – nelle attività pubbliche riprese dopo la fine dell’oltranzismo guelfo, ed anzi, paradossalmente, trasse nuovo impulso dalle crisi manifestatesi in occasione della discesa in Italia dell’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo e del tentativo egemonico di Castruccio Castracani Antelminelli da Lucca, rispettivamente negli anni Dieci e Venti del Trecento, allorché i rettori cittadini avvertirono la necessità di dividere il fronte degli avversari adottando un atteggiamento conciliante e varando un’amnistia generale, dalla quale furono esclusi soltanto gli oppositori irriducibili. La strategia ebbe successo, ed in un modesto lasso di tempo consentì il logoramento della parte estrinseca, di cui rimanevano sporadiche tracce ancora agli inizi degli anni Quaranta, ma che di fatto era venuta meno al termine degli anni Venti in concomitanza con la morte del Castracani e con la partenza del successore del defunto Arrigo VII, ovvero l’Imperatore Ludovico IV di Baviera. In sostanza è possibile affermare che a Firenze il dualismo tra guelfi e ghibellini, già decaduto alla fine del Duecento, venne superato in via definitiva nei primi decenni del secolo successivo, come indica altresì la scomparsa della Parte Ghibellina, le cui ultime attestazioni certe sono di poco posteriori alla pace del Cardinal Latino, e la parallela istituzionalizzazione della Parte Guelfa, esistente in forma autonoma sin dai tempi dell’esilio e formalmente riconosciuta dagli statuti del 1322. Occorre sottolineare come in tale contesto scomparvero le leggi specifiche disponenti l’esclusione dei ghibellini dalle magistrature cittadine, senza dubbio emanate sin dal 1266 e probabilmente cassate nel 1280, a seguito degli accordi sanciti dal legato pontificio, per lasciare il posto ad una congerie di norme che riservavano l’esercizio degli uffici pubblici ai soli guelfi, tra i quali, però, erano annoverati molti antichi seguaci della fazione imperiale, ormai del tutto redenti. Questo quadro di soluzione della dicotomia tra le parti e di assimilazione degli ex ghibellini nel ceto dirigente comunale, tuttavia, cambiò bruscamente nel corso degli anni Quaranta, per effetto di un mutamento drastico ed imprevisto dello scenario politico. Nel 1342, infatti, il regime di stampo oligarchico, che sin dal 1308 aveva retto la città, entrò in una crisi irreversibile, culminata con il ricorso ad una signoria temporanea affidata ad un principe angioino. La caduta di quest’ultimo, avvenuta nel 1343, determinò la nascita di un governo allargato, nel quale, accanto ai membri del patriziato cittadino – numericamente in minoranza – confluirono anche esponenti delle arti minori ed individui e famiglie di recente immigrazione, alterando in tal modo i tradizionali rapporti di forza e gli equilibri interni. Per un breve periodo, corrispondente al quinquennio 1343-1348, gli esecutivi rispecchiarono nella composizione e nella conduzione questo nuovo stato di cose, finché lo scoppio dell’epidemia di peste nel 1348 – la celeberrima Morte Nera – non causò la morte di molti dei novi homines recentemente abilitati alla guida del Comune, consentendo, o, meglio, favorendo, una ripresa degli oligarchi, da qualche anno in ombra, ed il loro reinserimento, in quantità cospicua, nelle borse da cui venivano tratti i nominativi dei magistrati cittadini. Gli esiti di questa riforma elettorale, dal carattere assolutamente straordinario, si manifestarono appieno nei tre decenni successivi, durante i quali si fronteggiarono due schieramenti abbastanza definiti negli intenti, anche se eterogenei nella composizione: l’uno favorevole al patriziato e ad una conduzione politica ristretta, nonché contrario alla partecipazione di immigrati recenti ed artefici minuti alla cosa pubblica, e perciò descritto come “oligarchico”, l’altro sostenitore di un ceto dirigente allargato e comprendente nuovi cittadini ed uomini immatricolati nelle corporazioni minori, e quindi  convenzionalmente definito “democratico”. Al quadro generale così delineato – invero già di per sé alquanto complesso – occorre altresì aggiungere le attività di due fazioni, guidate dalle famiglie degli Albizi e dei Ricci e formate dai loro alleati ed accoliti, le quali per il ventennio che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta supportarono rispettivamente il fronte oligarchico e quello democratico. Vari indizi, poi, dimostrano che, almeno dal 1347, gli oligarchi si erano stretti attorno alla Parte Guelfa, già in antiquo roccaforte dell’aristocrazia e dei magnati, prendendone di fatto il controllo ed imponendosi sui guelfi moderati, bendisposti verso il fronte democratico, e talvolta esponenti di quella posizione, per conferire nuovi poteri all’associazione e renderla quanto più possibile autonoma ed indipendente dal Comune. Tale indirizzo, perseguito con grande costanza per quasi trent’anni, ebbe come scopi principali il risanamento economico della Parte, il suo affrancamento dalla giurisdizione delle magistrature cittadine, e, soprattutto il ripristino delle leggi contro i ghibellini. Quest’ultimo obiettivo, ottenuto sin dalla fine degli anni Quaranta ed accompagnato dalla rinascita di un guelfismo intransigente, era stato pensato dagli oligarchi in funzione di una strategia esclusoria volta contro gli avversari democratici, i quali, accusati in modo più o meno strumentale di essere ghibellini, ovvero discendenti di fautori dell’Impero, potevano essere proscritti ed estromessi dalla politica attiva. Il revival del massimalismo guelfo ebbe successo sia grazie alle pressioni esercitate dai Capitani di Parte sugli esecutivi comunali quanto in virtù di una complessa crisi nelle relazioni fra stati, che vide l’emergere di un concreto pericolo per l’indipendenza di Firenze rappresentato dall’espansionismo dei Visconti di Milano, in passato vicari degli Imperatori. In effetti l’applicazione delle norme contro i ghibellini, demandata agli organi giudiziari del Comune, non ebbe grandi sviluppi, poiché i processi per ghibellinismo, avviati su denuncia sia di ufficiali della Parte Guelfa che di privati cittadini, ad essa legati o meno, furono pochi, oltre che concentrati nell’arco di un venticinquennio e, soprattutto, risolti per lo più con sentenze assolutorie. Giova ricordare come gli stessi uomini della societas guelforum fiorentina esitassero a farsi promotori di tali accuse nelle corti comunali, forse perché ben consapevoli dell’influenza in ambito giudiziario della Signoria, non sempre a loro favorevole, e come parimenti agissero anche i privati. Del resto l’analisi prosopografica degli imputati in questi procedimenti indica che solo un’esigua minoranza aveva avuto legami con l’antica pars Imperii, o con suoi sostenitori, e sempre mediante vincoli familiari vecchi di una o più generazioni, dimodoché è possibile affermare che la legislazione antighibellina era realmente un’arma politica degli oligarchici contro i democratici. La scarsità di risultati nell’offensiva giudiziaria rivolta contro questi ultimi convinse infine i partecipi ad introdurre una nuova pratica esclusoria, di maggior efficacia perché totalmente demandata all’arbitrio degli ufficiali guelfi: l’ammonizione. La nuova procedura poteva colpire tanto singoli individui quanto intere famiglie e consorterie, era basata su una valutazione insindacabile dei Capitani di Parte e di altri membri dell’associazione scelti ad hoc, ed aveva importanti riflessi in campo legale poiché rivestiva il valore di prova nei processi per ghibellinismo. Grazie alle ammonizioni, comminate per un ventennio a partire dal 1358, allorché vennero impiegate per la prima volta, centinaia di persone ed intere consorterie persero i diritti politici, venendo così eliminate dalla contesa per le cariche pubbliche, ed in svariate occasioni l’attività dei governi fu piegata al volere dei partefici, che non ebbero remore a minacciare apertamente la proscrizione dei membri di quegli esecutivi. Come è facile immaginare, gli aderenti allo schieramento democratico tentarono di limitare lo strapotere degli uomini della Parte e di arginare l’oltranzismo guelfo che gli oligarchici propugnavano, ma la tattica di aumentare il numero e di alterare la composizione degli uffici della societas guelforum, originariamente adottata su iniziativa dei Ricci, si dimostrò prima inutile, mercé l’attento controllo degli scrutini operata dagli avversari, ed infine inapplicabile, quando, agli inizi degli anni Settanta, l’associazione divenne completamente autonoma ed indipendente dal Comune. Soltanto l’avvio di una forma parallela di esclusione extragiudiziale, ovvero l’inserimento nel novero dei magnati – e la conseguente perdita della rappresentanza nei collegi degli esecutivi – di quei popolani che avessero assunto comportamenti sopraffattori e violenti, o che di simili crimini fossero stati denunciati e ritenuti colpevoli dalle autorità cittadine, valse a contrastare il diffondersi delle accuse di ghibellinismo e delle ammonizioni. È opportuno sottolineare come l’introduzione di tale provvedimento cadesse nel 1372, in uno dei momenti di massimo fulgore della Parte Guelfa, ma anche nell’anno che vide l’emarginazione dalle principali magistrature comunali dei vertici delle famiglie Albizi e Ricci, le quali, alleandosi, avevano posto fine alla lotta di fazione, determinato un pericoloso accentramento di potere, e lasciato privo di una guida riconosciuta i democratici. Nonostante la reazione di questi ultimi, la seconda metà del decennio registrò una recrudescenza di ammonizioni ed un acuirsi dello scontro con gli oligarchici raccolti attorno alla società dei guelfi fiorentini, finché, nel 1378, la tensione giunse al culmine, ed una Signoria di ispirazione democratica, vista l’impossibilità di giungere ad un’intesa con i partefici in materia di proscrizioni, decise un rafforzamento degli Ordinamenti di Giustizia e delle norme contro i magnati. Dinanzi alla prospettiva di essere definitivamente emarginati dalla vita politica i guelfi estremisti risposero con un colpo di mano, cosicché alcune centinaia di loro si riunirono armati presso il Palagio di Parte, ma infine desistettero da ogni iniziativa violenta e fuggirono dalla città. La defezione degli oligarchi segnò la fine del predominio della Parte Guelfa e delle attività esclusorie che attorno ad essa ruotavano, ma precedette di poco anche la caduta del regime, in auge sin dal 1343, rovesciato poche settimane dopo dal  tumulto dei ciompi.

parte guelfa definitivo per sfondi bianchi

Parte Guelfa

Giubileo Guelfo


PARTE GUELFA

La Parte Guelfa di Firenze, magistratura istituita grazie a Papa Clemente IV nel 1266 e dopo l’interruzione seguita alla disattivazione con motuproprio granducale del 22 Giugno 1769, in virtù dell’antico possesso di stato giuridico in Firenze, con la benedizione di Sua Eminenza Reverendissima il Cardinale Gualtiero Bassetti, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, e con il consenso di Sua Eccellenza Dario Nardella, Sindaco di Firenze, è stata ricostituita con Atto Pubblico del 25 marzo 2015 e giuridicamente ristabilita come Arciconfraternita, ovvero organizzazione di volontariato. Il 26 Luglio 2015, Festa di Sant’Anna, patrona delle Arti Fiorentine, ha ricevuto formale approvazione da parte del Sindaco di Firenze.

Sindaco Firenze a Parte Guelfa

Parte Guelfa, onorando l’incarico conferitole da Cosimo I de’ Medici con la Legge dell’Unione promulgata il 18 Settembre 1549, si adopera oggi per la protezione delle risorse naturali e paesaggistiche attraverso un vasto servizio di salvaguardia ambientale, si impegna nella protezione e nella valorizzazione delle risorse naturali e paesaggistiche, si adopera per la valorizzazione delle tradizioni popolari con speciale attenzione a quelle cristiane e si adopera per la custodia delle istituzioni ecclesiastiche. Parte Guelfa realizza attività di utilità ambientale, culturali, tradizionali, ludico-sportive, religiose e didattiche. Gli appartenenti sono denominati Confratelli e Consorelle e si obbligano alla testimonianza costante delle virtù cristiane di carità e fraternità nei comportamenti e nelle opere come contributo alla formazione delle coscienze secondo l’insegnamento del Vangelo e promuovono con autentico spirito ecumenico il dialogo e la collaborazione con le altre Chiese cristiane sotto la guida e l’assistenza della Chiesa Apostolica Romana. Parte Guelfa non persegue scopi di lucro, né fini politici.

L’Ordo Partis Guelfae è costituito di Cavalieri e Dame in un solo grado gerarchico. Console di Parte Guelfa, Capitani di Parte Guelfa sono incarichi elettivi pro tempore come tutte le altre cariche oggetto di nomina del Consiglio di Credenza. I Cavalieri e le Dame sono creati dal Console di Parte Guelfa attraverso speciale cerimonia di investitura. Le ammissioni dei Cavalieri e delle Dame sono decretate dal Consiglio di Credenza con apposito diploma firmato dal Console e dai Capitani e munito del sigillo della Parte Guelfa. L’Arcivescovo di Firenze ha facoltà di concedere, a sua discrezione ed in casi particolari, Motu Proprio, ammissioni nella Parte Guelfa, informandone il Consiglio di Credenza. La domanda di ammissione deve essere fatta dall’interessato sempre per iscritto e rivolta al Consiglio di Credenza. Il confratello espulso o dimissionario perde ogni diritto acquisito, spirituale e materiale. Possono essere ammessi come confratelli onorari soltanto coloro che si siano resi grandemente benemeriti della Parte Guelfa.

I requisiti per appartenere alla Parte Guelfa sono: praticare vita cristiana, aver compiuto il diciottesimo anno di età, essere moralmente incensurato e tenere un comportamento corretto ed educato, non far parte di associazioni o movimenti in contrasto con la morale cristiana ed aver corrisposto le tasse di ammissione. Per aderire all’Arciconfraternita è tassativo ricevere l’investitura a Cavaliere o Dama di Parte Guelfa, dopo specifico percorso formativo culturale, etico e religioso disposto dal Consiglio di Credenza col contributo dell’Arcidiocesi di Firenze e del Consiglio Feste e Tradizioni Fiorentine. Divengono membri della Parte Guelfa coloro la cui domanda di ammissione sia definitivamente accettata con voto unanime dal Capitani di Parte Guelfa ed è necessario che ciascun aspirante sia presentato da due padrini. Gli aderenti, una volta scelto il Quartiere di appartenenza, non potranno mai più cambiarlo. Solo il Consiglio di  Credenza potrà determinare, in via eccezionale, modifiche di appartenenza dei membri. Ad ogni singolo aderente sono richiesti, per il ruolo che riveste ed in quanto rappresentante della città di Firenze e della Parte Guelfa, comportamenti ed atteggiamenti seri ed adeguati. Qualora ciò non si verificasse lo stesso sarà soggetto a sanzioni da parte del Consiglio di Credenza come previsto dal presente statuto. La Parte Guelfa partecipa al suffragio, alle esequie ed alla sepoltura dei propri membri. Le attività di volontariato sono prestate a titolo personale, spontaneo e gratuito.

 

Struttura

 

ORGANI CENTRALI
Adunanza Generale
Consiglio di Credenza
Senato
Segreteria di Credenza
Stato Maggiore
Commissioni
Reggimenti

 

ORGANI TERRITORIALI
Capitolo
Luogotenze
Collegi
Balivati

 

REGGIMENTI

Reggimento
“SAN FRANCESCO”

Squadrone Dragoni
Squadrone Esploratori
Squadrone Cacciatori
Squadrone Ciclisti
Squadrone Canottieri
Squadrone Elicotteristi
Squadrone Sommozzatori
Squadrone Soccorritori

 

Reggimento
“SAN GIORGIO”
ASD Parte Guelfa

Squadrone Giostratori
Squadrone Guide
Squadrone Aurighi
Squadrone Ospitalieri
Squadrone Terapisti

 

Reggimento
“SAN LODOVICO”
Compagnia di San Lodovico e della Parte Guelfa

Squadrone Pellegrini
Squadrone Oblatori

 

Reggimento
“MARZOCCO”

Squadrone Dignitari
Squadrone Cavalleggeri
Squadrone Lancieri
Squadrone Armati
Squadrone Staffieri
Squadrone Arcieri
Squadrone Falconieri
Squadrone Dragoni di Toscana

 

 

Missione

 Parte Guelfa sigillo

MISSIONE

Onorando l’incarico conferitole da Cosimo I de’ Medici nel XVI secolo, Parte Guelfa si adopera oggi per la protezione delle risorse naturali e paesaggistiche attraverso un vasto servizio di salvaguardia ambientale, si adopera per la valorizzazione delle tradizioni popolari con speciale attenzione a quelle cristiane e si adopera per la custodia delle istituzioni ecclesiastiche. Parte Guelfa realizza attività culturali, tradizionali, ludico-sportive, religiose, didattiche e di utilità ambientale. La Parte Guelfa compie attività pastorali e di culto sotto la guida di un assistente ecclesiastico denominato Cappellano Maggiore e si impegna nella custodia e tutela dell’ambiente a partire dai parchi cittadini e, in particolare, dal Parco delle Cascine di Firenze, città nella quale ha avuto origine e dove si trova la propria sede operativa presso l’Ippodromo del Visarno. Parte Guelfa lavora per favorire e garantire la corretta applicazione delle disposizioni in materia di protezione dell’ambiente, della flora e della fauna e realizza, attraverso un servizio di vigilanza permanente, un’attività di vigilanza, mediante l’accertamento delle violazioni degli illeciti amministrativi, dei regolamenti e dei piani unici integrati delle aree naturali protette, nonché mediante la segnalazione di casi di degrado ambientale e delle relative cause alle autorità competenti. Parte Guelfa si impegna in attività formative volte all’educazione, partecipando a programmi di sensibilizzazione e informazione ambientale nelle scuole e promuovendo l’informazione sulle normative in materia ambientale. Parte Guelfa lavora per la valorizzazione delle aree verdi concorrendo con le istituzioni competenti alle attività di recupero e promozione del patrimonio e della cultura ambientale e si rende disponibile alla salvaguardia per fronteggiare fattispecie di emergenze ambientali. Sono inoltre attività proprie di Parte Guelfa: l’esecuzione di servizi d’onore durante udienze e ricevimenti dell’Arcidiocesi e la protezione, ove richiesta, dell’Arcivescovo durante manifestazioni o viaggi; la celebrazione di particolari atti di devozione in onore di San Ludovico d’Angiò, Patrono della Parte Guelfa; la formazione dei membri alla pratica e alla testimonianza di vita cristiana con pellegrinaggi e itinerari di fede e attraverso corsi di catechesi e momenti di preghiera comunitaria; il recupero, lo sviluppo e la promozione di tradizioni a carattere ludico-sportivo storicamente realizzate dalla Parte Guelfa, come la Giostra del Giglio, la Giostra di Madonna Libertà e la Fiorente; la valorizzazione, la custodia e la conservazione dei beni culturali e paesaggistici e delle tradizioni; la realizzazione di iniziative stabili o temporanee per la crescita umana e sociale dei membri; la cura della dignità del culto e l’animazione delle celebrazioni liturgiche; la solidarietà verso i bisognosi con opere di misericordia materiale e spirituale in una visione cristiana della vita e la stabile collaborazione con la Chiesa Cattolica per la realizzazione dei piani di azione pastorale delle comunità diocesane ed altre iniziative di apostolato. La devozione verso San Ludovico d’Angiò, Vescovo di Tolosa ed appartenente all’Ordine dei Frati Minori, si attua anche nel condurre una vita attenta al rispetto del Creato e delle Creature, in pienezza con lo spirito francescano che discende direttamente dall’operato di San Francesco d’Assisi, fondatore dei Frati Minori e Patrono d’Italia, il quale ha lasciato, nel Cantico delle Creature, un testo di grande sensibilità ambientale. Tanto che, il Santo Padre Papa Francesco, lo ha ripreso nell’Enciclica “Laudato sii”, che ben può rappresentare una guida morale nell’operare fattivamente per la difesa dell’ambiente. Lo spirito francescano, oltreché nell’attenzione all’ambiente, si riscontra anche nell’ecumenismo che contraddistingue la Parte Guelfa.

parte guelfa definitivo per sfondi bianchi

Statuto

PARTE GUELFA

Ordo Partis Guelfae

 

STATUTO

 

Parte Guelfa – Statuto Arciconfraternita versione approvata il 18 Marzo 2025

 

Pagina 3 di 3

Parte Guelfa timbro black

PARTE GUELFA
Cavalleria Repubblica Fiorentina

Palagio dei Capitani di Parte Guelfa
Piazza di Parte Guelfa 1 - 50123 Firenze
Codice Fiscale 94247160487

Contattaci  |  Privacy  | Cookies | Copyright © 1266 - 2020 YOUR NET SOLUTION -Tutti i diritti riservati