Parte Guelfa scena di caccia medioevo 1 coverL’autore ripercorre le tecniche venatorie del Medioevo, incentrando l’analisi sul rapporto tra uomo e natura, sulla concezione che si aveva della foresta e sull’uso della stessa da parte dell’uomo di allora. Attraverso il dispiegarsi delle tecniche di caccia dei nobili fino ad approdare alla sponda della caccia dei poveri e di coloro che molto spesso vivevano ai margini della società. Studiare la nobile arte della falconeria osservando il valore simbolico che assumeva agli occhi di chi la praticava.

Vedere l’uso che ne faceva il nobile e le raffinate tecniche di cattura e addestramento del falcone. Tramite l’approfondimento del discorso sulla natura, vista come creazione di Dio ma al tempo stesso nascondiglio per esseri infernali; cercare di capire come l’uomo medievale viveva il suo continuo contatto con un ambiente così ricco di risorse ma anche di pericoli che vanno al di là dell’umana comprensione. Un viaggio a caccia delle antiche tecniche venatorie e alla scoperta di un altro universo naturale, lontano da noi molti secoli ma estremamente vicino per le emozioni che ancora oggi ci trasmette.

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Caccia col falcone nel XIII

È bello ritrovare se stessi camminando in boschi dall’ aspetto fatato e quasi magico. È rilassante farsi avvolgere e stordire dai profumi dolci e intensi dei fiori o dal pungente odore di resina fresca. Camminare come in un altro mondo, trascinati con forza dalla moltitudine di colori e suoni di cui il bosco è prezioso scrigno. Ma quali erano le sensazioni di chi viveva circondato, seppure abitando in città, da questa natura ricca di doni ma altrettanto generosa di insidie? La foresta era nel Medioevo il più naturale degli scenari in cui viveva l’uomo europeo. Ma al tempo stesso era anche il più arcano e pauroso degli sfondi, atto a vedervi ambientata ogni genere di avventura: «Accadde poco più di sette anni fa. Ero solo e camminavo in cerca di avventure, armato dalla testa ai piedi come si conviene a ogni cavaliere. Il caso mi condusse nel mezzo di una folta foresta in cui le piste ostruite dai rovi e dagli spini nascondevano mille pericoli. Non senza fatica e senza danno riuscii a seguire un sentiero e vi cavalcai quasi un giorno intero, finché finalmente riuscii a venir fuori da quella foresta. Era la foresta di Brocelandia». Fitte foreste hanno coperto gran parte del continente europeo fino al XIX secolo, alternandosi a paludi e brughiere. Nella foresta c’era qualcosa di mitico: era considerata l’immagine della natura bestiale e indomita cui si opponevano il giardino e il frutteto, segni questi ultimi di una natura domata e benevola. Nel bosco vivevano mostri, fiere, fuorilegge e ogni possibile creatura mostruosa e infernale. Le «Chanson de geste» sono estremamente ricche di avventure e storie fantastiche in cui indomiti cavalieri si battono contro creature infernali popolanti le fitte e oscure foreste. Solo questo, secondo la letteratura «cortese» era il duro tirocinio che ogni uomo doveva praticare se voleva diventare un vero guerriero. Bisogna però tenere presente un fatto di fondamentale importanza: il nostro immaginario collettivo di questa epoca ricalca in gran parte l’idea ottocentesca e, in modo particolare, romantica del Medioevo. Quella grande corrente artistica e filosofica che fu il Romanticismo ci condiziona ancora fortemente su questa lontana epoca. Dobbiamo a questa corrente di pensiero le figure di cavalieri valorosi, di castelli dalle torri immense, di antri fatati e streghe a congrega. Un’epoca buia come l’hanno descritta il Rinascimento e soprattutto l’Illuminismo. Un’ epoca di barbarie e ignoranza. Ovviamente non era affatto così: come sempre la realtà è molto diversa dalla fantasia o dall’immaginazione popolare. Abbiamo detto che l’uomo viveva a diretto contatto con la natura. Le città apparivano come semplici isole di civiltà nel mare immenso delle foreste e dei campi. Il rapporto spaziale città-ambiente naturale era inversamente proporzionale ad oggi. Torniamo a parlare di questa natura affascinante e misteriosa. La natura veniva considerata come una benefattrice dell’umanità a cui elargiva i suoi frutti. Ma era anche ostile e pericolosa. La gente di allora era ossessionata dagli aspetti negativi della natura e da ciò che essa racchiudeva nel suo lato più profondo e inaccessibile agli intelletti umani. Tutto si riconduceva al piano religioso della creazione. Dio aveva donato all’uomo il potere .su tutte le cose del creato, ma con il peccato originale l’uomo si era giocato l’opportunità di dominio sull’ambiente in cui viveva.

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Scena di caccia nel XIV

Con la sua trasgressione tutto era diventato duro, difficile e pericoloso: «Disse ‘poi ad Adamo: poiché hai ascoltata la voce della tua donna) ed hai mangiato del frutto del quale t’avevo comandato di non mangiare) maledetta la terra del tuo lavoro; tra le fatiche ne ricaverai il nutrimento in tutt’ i giorni della tua vita; ti germoglierà triboli e spine) e mangerai l’erba della terra. Col sudore della tua fronte ti procaccerai il pane) sinché tu ritorni alla terra dalla quale sei stato cavato; perché polvere sei, ed in polvere tornerai» (Genesi, 4, 17-19). Risiedeva in questo la spiegazione dell’ ostilità della natura nei confronti dell’uomo: i boschi e le paludi avanzavano e guadagnavano terreno in continuazione in quasi tutta Europa e in modo particolare nelle zone a bassa densità di abitanti: il lavoro per tenerli a bada era estremamente difficile e faticoso. È nei primi periodi del Medioevo, nell’ Alto Medioevo che comprende i secoli dal VII al X, che vengono fondati gli ordini monastici, grazie ai quali ampie parti di territorio vengono bonificate e coltivate: in parole povere vengono ricondotte alla volontà degli uomini. Furono i Benedettini i primi ad insediarsi nelle brughiere e nei boschi e a renderli terreni coltivabili e coltivati, ampliando così i terreni ad uso coltivazione, in parte esistenti anche in precedenza, grazie al sistema agrario delle curtis altomedievali.

Il «nemico» era comunque sempre in agguato. Nel bosco infatti dimoravano gli antichi dei pagani ridotti a presenze demoniache e mostruose. Un chiaro esempio di questo è proprio la leggenda di San Giorgio e del Drago: questo animale rappresenta, tramite un’astuta metafora, la foresta ostile e pericolosa. Secondo la concezione medievale era pieno diritto dell’uomo, in quanto parte del disegno della redenzione dal peccato originale, padroneggiare sulla natura. Sul piano materiale ciò avveniva lottando contro le intemperie e faticando per conquistare nuovi spazi vitali per l’uomo stesso e 1’agricoltura. Su quello teorico e scientifico, erano i dotti a cercare di piegare la natura carpendone i segreti. Ed ecco la proliferazione di trattati che spiegavano la vera essenza delle cose: i Bestiari per animali reali e fantastici nei quali, però, si credeva fermamente, gli Erbari per le piante, i Lapidari per le pietre; ciascuno di questi elementi era posto in rapporto con gli uomini e le verità divine. Nell’immaginario medievale la realtà diventava un Tutto in cui le singole parti si rispecchiavano e si confrontavano. L’Universo, macrocosmo, riflette nella sua struttura quella dell’Uomo, microcosmo. Tutti gli sforzi dell’uomo potevano essere vanificati in un attimo. La natura era implacabile e riprendeva subito lo spazio rubatole dall’uomo. Approfondiamo il discorso sulla foresta. Certamente poteva essere un luogo ostile e pericoloso, come abbiamo già sottolineato, ma si poneva altresì come un’inesauribile fonte di risorse. Il materiale maggiormente raccolto nella foresta era il legno, indispensabile per il fuoco, per costruire le case, le torri, i tetti, le palizzate e altrettanto utile per quasi tutti gli oggetti di uso quotidiano: ciotole, piatti e strumenti di ogni genere. La corteccia serviva per conciare le pelli; la resina veniva utilizzata per produrre colle, ceri e torce. Ancora con il legno si costruivano navi, carri, carrozze e ogni genere di macchine da assedio. Nel bosco si trovavano infinite varietà di piante da cui si ricavavano medicinali e tinture per stoffe e pelli. Molto spesso nella foresta si portavano a pascolare gli animali, come i caratteristici maiali medievali neri e zannuti. Infine nella foresta, quasi sempre appartenente ad un feudatario, si cacciava: dalla piccola alla grossa selvaggina.

Parte Guelfa scena di caccia al cervo

La caccia al cervo

Abbiamo detto che la maggior parte delle foreste e dei terreni apparteneva ad un signore. Conseguentemente tutto ciò che era al suo interno era di sua proprietà. Se i meno abbienti, il popolo o, per usare un termine poco accettato in ambito storiografico, i servi della gleba volevano usufruire di ciò che era all’interno del bosco, dovevano pagare un tributo al signore. La foresta era un’incredibile fonte di sostentamento. La caccia era certamente una necessità: serviva infatti per rifornire la tavola del signore, la cui dieta era sostanzialmente a base di carne, da cui i numerosissimi casi di gotta tra i nobili. Ma forse assumeva già allora l’aspetto di una passione. La caccia della selvaggina più grossa nelle foreste, dei conigli, delle lepri e delle pernici nelle riserve, è appannaggio esclusivo del feudatario. Quella al cervo veniva comunque considerata la più nobile di tutte le cacce: il cervo costringeva a lunghi e spossanti inseguimenti e così esaltava la completezza del cacciatore a cavallo. La caccia, infatti, rappresentava per il signore il migliore allenamento alla guerra nei brevi periodi di pace. Il cervo era altresì dotato di una nobiltà e di un prestigio naturale che andavano al di là del semplice fatto venatorio. Tutto questo derivava da una tradizione ininterrotta fin dall’ epoca classica – una cerva bianca era infatti il simbolo di Diana dea della caccia – che, con il passare dei secoli, si era arricchita di nuovi elementi fantastici, consegnando al Medioevo l’idea che il cervo fosse un animale addirittura regale. Con la stessa tecnica – inseguimento a cavallo e uccisione della preda bloccata I dai cani con un’ arma corta (pugnale) – venivano cacciati anche daini, cinghiali e i pochi orsi rimasti. Ma il cinghiale fu sempre ritenuto, nel Medioevo, un selvatico «minore» in quanto, frequentando macchie o boschi molto fitti, impediva le lunghe corse a cavallo. Da cui il termine di «cacciarella» (caccia minore) per indicare le braccate al cinghiale.

Parte Guelfa scena di caccia falconeria

La caccia con il falcone

«La storia della falconeria in Europa riprende a grandi linee quella della caccia in generale». Con questa frase emblematica possiamo capire quale sia stata l’importanza della pratica venatoria con il falcone. Introdotta in Europa dall’Oriente agli inizi dell’ XI secolo, ben presto divenne una delle attività preferite dall’ aristocrazia medievale. Fin dagli inizi fu una caccia prettamente nobile, in quanto non era solo segno ma anche esercizio di dominio. Era anche un’arte difficile al cui apprendimento il cavaliere doveva dedicare molte ore. Bisognava saper catturare l’uccello, curarlo e insegnarli a rispondere ai richiami e ai gesti, a riconoscere la preda e a catturarla. Questa scienza, la più raffinata dell’ educazione «cortese», è l’argomento di numerosi trattati, in genere composti in Sicilia, che insegnano come deve essere l’addestramento di un giovane falco da caccia. Primo fra tutti il «De arte venandi cum avibus» fatto comporre da Federico II per istruire il figlio Manfredi nell’ arte venatoria. «Deve essere preso dal nido, se possibile pochi giorni dopo la nascita; dopo la prima muta bisogna tagliarli le unghie, attaccargli un campanellino alla zampa per ritrovarlo se si perde e cucirgli le palpebre. Perché per venir bene addestrato l’uccello deve essere cieco. Comincia poi il vero e proprio addestramento: abituarlo a star fermo su un trespolo, esercitarsi a tenerlo sul pugno, insegnarli a quali richiami obbedire; poi familiarizzarlo nuovamente con la luce scucendogli le palpebre, e farlo esercitare con finte prede. Tutto ciò richiede circa un anno di lavoro, dopodicbé giunge il momento della prima caccia». La falconeria permetteva un controllo sulla natura, una sorta di addomesticamento del «selvaggio» da parte dell’uomo. Il falcone rivestiva la funzione di «alter ego» del nobile. Nella letteratura medievale era frequente l’assimilazione del guerriero al rapace. Questa assimilazione, nobile-rapace, diventò frequente anche per un altro motivo: l’azione del falcone veniva interpretata come una forza finalizzata. Era un evidente simbolo di superiorità: come il nobile è superiore rispetto al popolo, cioè i pauperes, così il falcone è superiore ai volatili minori sottomessi dalla sua azione regale e «guerriera» ad un tempo. Attraverso l’azione del falcone il signore si beava di se stesso e della sua potenza. Un chiaro esempio di come la falconeria aveva assunto i connotati di caccia raffinata, fino a trasformarsi in vera e propria azione Iudica, è il duplice significato del verbo affatare che significa «adornare soverchiamente» e «addestrare un rapace alla caccia». Il valore del falcone crebbe a tal punto da farlo assurgere a simbolo iconografico distintivo dei signori che vantavano maggiore nobiltà guerriera. Già nell’ arazzo di Bayeux (fine XI secolo), raffigurante la battaglia di Hastings del 1066 con cui il normanno Guglielmo il Conquistatore si impadronì dell’Inghilterra dei feudatari sassoni, sono riprodotti dei guerrieri a cavallo con il falcone appoggiato sul braccio, presumibilmente simbolo della loro nobiltà. Abbiamo anche, dal tardo Medioevo in poi, tutta una gerarchia che assegnava i rapaci alle persone a seconda della loro importanza nella piramide sociale. Le prede del falco erano costituite da piccola selvaggina (lepri e pernici) e altri volatili minori. Veniva specialmente utilizzato per la caccia ad uccelli di palude come airone, tarabusino o guacco, anatra, gru, ottarda e anche altri uccelli d’acqua, prateria e steppa. Specificatamente si trattava di quella parte della fauna che meno si addiceva ad essere affrontata direttamente dai nobili, con la tecnica, prima descritta, dell’inseguimento a cavallo.

Titolo Nobiliare – Rapace Appartenente
Imperatore – Aquila
Re – Girifalco
Conte – Falco pellegrino
Dama nobile – Smeriglio
Proprietario di campagna – Astore

Prospetto di parte della gerarchia laica medievale con i rapaci simbolicamente rappresentanti il loro grado sia sociale che guerriero. Questa associazione, titolo nobiliare – rapace, che non possiede niente di realistico, ha valore meramente simbolico ed è contenuta nel Boke o/Saint Alban, opera inglese del XV secolo. Ecco dunque farsi insistentemente avanti la vera funzione del falco: «esso sostituiva il nobile nella caccia a prede altrimenti indegne». Bisogna tenere presente che prerogativa principale di queste cacce, oltre alla funzione pratica di procacciare il cibo per la tavola del signore, al quale comunque erano quotidianamente addetti i suoi cortigiani, non era il vero e proprio scontro con la preda a costituire il momento più atteso: questo infatti era scavalcato dal piacere che scaturiva nell’ osservare razione del falcone in volo. Questa era l’opinione di Federico II, il più illustre falconiere della storia. Fu lui, molto probabilmente, ad introdurre in Europa il cappuccio, tipico elemento dell’iconografia del falcone, dopo il suo soggiorno nel Vicino Oriente nel 1228-1229 in occasione della V Crociata. Quindi ciò che avveniva altro non era che «la contemplazione della propria nobiltà attraverso il falco». La caccia con il falco costituiva dunque il plaisir per eccellenza dell’ aristocrazia: l’unica caccia che non era semplicemente associata, ma assimilata in modo assoluto al gioco. Molta importanza assume anche un’ altra caratteristica propria della falconeria: gli spazi in cui veniva praticata la caccia erano le rive dei fiumi, le paludi, le campagne. Questi erano luoghi molto diversi dalla selva che poteva nascondere numerose insidie: erano luoghi simbolo di una natura aperta e controllabile, esattamente come era controllabile la natura del falcone. Solo in questi spazi il falcone poteva esercitare il suo volo. Volo che era il simbolo di una natura aggressiva e superiore. Come quella del nobile.

Parte Guelfa poveri medioevo

I poveri e la caccia

Al contrario della caccia dei nobili, che altro non era se non un piacevole passatempo e un’ esternazione del proprio potere e del proprio valore militare, la caccia dei poveri e dei contadini veniva praticata per pura necessità. Non sono molte le notizie riguardanti le pratiche venatorie dei più poveri. Siamo a conoscenza del modo in cui cacciavano attraverso le poche fonti iconografiche dell’ epoca e grazie al fatto che le tecniche usate per cacciare sono passate, quasi inalterate attraverso i secoli, fino ai nostri tempi. Abbiamo detto che per i poveri la caccia non era certamente un piacere, né veniva considerata un’ attività dalle connotazioni ludiche. Era una necessità, a volte anche impellente, per avere qualcosa di diverso da mettere sulla tavola. Qualcosa che variasse la loro alimentazione composta essenzialmente da prodotti farinacei, legumi e ortaggi su cui primeggiava la rapa, vera signora del pasto del contadino medievale. Abbiamo appurato che le foreste, e ciò che era alloro interno, erano esclusivo appannaggio del feudatario. La caccia al suo interno spettava quindi al signore. La grossa selvaggina, i cinghiali o i cervi, dovevano essere cacciati in corsa: era quindi necessario avere dei buoni cavalli da sella, che i contadini naturalmente non possedevano. Perciò è anche grazie alle circostanze che il signore aveva il diritto all’ esclusiva di cacciare questi animali. Molto probabilmente anche i contadini non disdegnavano la caccia ad animali grossi: potevano sicuramente cacciare il cinghiale con lo spiedo o con lunghi bastoni appuntiti; o catturare un cervo con buche nascoste dal fogliame. Ma sussisteva un problema di non poco conto: per cacciare questi animali si doveva restare visibili per non perderli di vista e seguirli nei loro rapidi spostamenti, e non era piacevole a quei tempi, più che ai nostri, essere accusati di bracconaggio. Si finiva molto spesso come gli animali cacciati. Morti. Solo nel 1215 in Inghilterra si assistette ad una piccola svolta con la Magna Charta libertatum. Con questo documento, che fissava i limiti reci-proci ai diritti e ai doveri del re e dei sudditi, vennero abolite le pene per lacaccia di frodo. Naturalmente tutto ciò che fu messo su carta non venne quasi mai trasportato di pari passo nella realtà. Quindi cambiò molto poco. Per gli animali di taglia piccola, da pelo o da piuma, il discorso era diverso: con un po’ di abilità e di astuzia, questi si potevano uccidere con l’arco o la fionda, o con trappole rudimentali abilmente disposte nel sottobosco (reti e lacci), rimanendo ben nascosti dietro alberi e cespugli. Non era perciò facile cacciare se non si possedevano i mezzi adatti e quasi sempre si combatteva contro un diritto, che molte volte non esisteva per iscritto, che arrogava ai nobili il dominio su tutto ciò che dimorava nei loro possedimenti. È nel periodo delle carestie, dei soprusi e delle violenze, caratteri significativi di quei lontani anni, che fiorisce il bracconaggio, assumendo il cacciatore di frodo le vesti del rivoluzionario e del giustiziere. Se Robin Hood può apparire un personaggio leggendario perso nella notte dei tempi, non altrettanto si può dire dei nostri briganti maremmani del 1800 come il Tibursi, il Fioravanti, l’Amalfitano, l’Albertini ed altri che vengono considerati come gli ultimi epigoni del bracconaggio nato nel Medioevo. In Italia purtroppo, insieme a questi eroi popolari, nacque un vero e proprio odio da parte dei contadini nei confronti della selvaggina: selvaggina che, fino a non molto tempo fa, significava raccolti distrutti senza alcun indennizzo, angherie da parte della nobiltà, obbligo di mantenere gratuitamente mute di cani da caccia che contendevano la già povera mensa alla famiglia coltivatrice. Ambedue gli atteggiamenti ora descritti sono sopravvissuti nell’ animo popolare fino ai nostri giorni venendo a creare delle situazioni anacronistiche, tipicamente italiane, che si risolvono sempre a scapito delle ormai esigue popolazioni animali selvatiche rimaste: il bracconiere appare ancora come un «eroe», invece di essere considerato alla pari di un ladro quale è, e l’agricoltore continua a vedere nella selvaggina uno sgradito ospite. Il fascino che esercita il bosco è comunque rimasto invariato, anche se oramai ha perso quasi totalmente il suo carattere di arcano custode di ancestrali paure e creature fantastiche.

 

Autore

Jacopo Ragazzi

BIBLIOGRAFIA

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