Dante guarda alla pace come componente dell’ordine universale. Sì è detto, molte volte, che l’inferno sembra in più di una occasione essere un concentrato di orrore, di sofferenza devastante ai limiti del sadico. Ricordo ancora un sacerdote che anni fa mi proibì di tenere una lectura dantis che mi era stata richiesta da un gruppo di parrocchiani perché a suo giudizio Dante era il responsabile del terrore dell’inferno che per secoli avrebbe perseguitato i poveri credenti. Al netto del commento di un simile giudizio – mi risulta che Dante sia certo sommo poeta, ma non che sia mai stato anche sommo pontefice – una cosa però è vera: anche a causa di alcune letture soprattutto romantiche, si è perso spesso di vista quello che il vero significato della Commedia nel suo complesso: un affresco, unico nella letteratura universale, della tensione dell’umano nel divino.

Per dirla con una celebre dantista americano, Charles Singleton: iter mentis ad deum, itinerario della mente a Dio, che trova il suo culmine nella commossa visio Dei nel canto 33 del Paradiso, dove forse più e meglio che in qualsiasi opera figurativa, musicale o poetica si può comprendere la profondità del mistero dell’uomo, così piccolo e insignificante difronte alla vastità del cosmo, eppure nello stesso tempo unico proprio per quella scintilla di divino che alberga in lui:

Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!

Questa premessa per capire come, per il nostro poeta, la pace sia una componente fondamentale dell’ordine universale: la pace sulla terra è senza ombra di dubbio la premessa fondamentale per raggiungere quella pace nell’ordine divino nella luce intramontabile del Paradiso. Già nel Convivio il poeta aveva affermato: “E però che questa è veramente quella perfezione, dico che quella gente che qua giù maggiore diletto riceve quando più hanno di pace, allora rimane questa ne’ loro pensieri, per questa, dico, tanto essere perfetta quanto sommamente essere puote l’umana essenzia.”

La pace dunque viene presentata come il massimo livello possibile della perfezione umana. Ma il concetto viene sapientemente elaborato anche nel capolavoro politico del poeta, quella Monarchia che contiene in sé la teoria detta “dei due soli”, con cui il poeta, dopo anni di dolorosa coscienza di quanto “sappia di sale lo pane altrui” e soprattutto del disastro causato dagli egoismi e dagli odi di parte, da quella avidità così icasticamente modellata nella lupa che ha lacerato e continua a lacerare ogni angolo d’Italia, cerca di superare le cause stesse, di andare alla radice male proponendo una modernissima separazione del potere spirituale da quello temporale (uno spirito laico che non va confuso con l’odierno laicismo); ma soprattutto due principi che si elevino al di sopra di ogni particolarismo ed ogni possibile degenerazione verso un “particulare” totalmente svincolato ed indifferente al bene comune. Infatti, già nella Monarchia Dante ricorda che “Riguardo alla disposizione, la giustizia incontra talvolta un ostacolo nel volere: quando infatti la volontà non è libera da ogni cupidigia, pur essendo la giustizia presente, non splende tuttavia nel pieno fulgore della sua purezza”.

Prima di proporre un breve itinerario nel poema su questo argomento, un accenno appena ancora alla Monarchia, opera in cui Dante è senz’altro debitore al pensiero di San Tommaso, anche se non solo e non comunque in modo pedissequo. Non solo per Tommaso (e per Dante) la politica dovrebbe servire a farci vivere meglio, ma può sembrare incredibile come nell’opera politica più celebre dell’Aquinate, il De regimine principum ad regem Cipri si va “da preoccupazioni che oggi definiremmo ecologiche, come la salubrità dell’ambiente, all’opportunità e ai luoghi di divertimento, fino alla necessita di trovare per tutti una occupazione” Non solo; sebbene Tommaso ritenga la monarchia la migliore forma di governo, ( presumibilmente elettiva però, non ereditaria), osserva con interesse e un certo favore anche i governi delle repubbliche cittadine: “ Per questo l’esperienza dimostra che una citta retta da governatori che durano un anno, a volte è più prospera di quelle citta – magari tre o quattro unite tra loro – governate da un re”. Interessante è il fatto che, in queste circostanze, quando si chiedono alla cittadinanza sacrifici, questi diventano più tollerabili. Infatti, “La gente trova piu gravosi modesti oneri imposti dai re, che non delle pesanti tasse che vengono richieste dalla massa dei cittadini. E per queste ragioni che il monarca di cui parla Tommaso, osserva Rocco Pezzimenti, assomiglia più a un re dell’antica Roma o a un esecutivo presidenziale dei nostri giorni.

Dante, oltre a riprendere questi punti, è molto interessato anche al problema dell’unità politica, principio ripreso anche questo dal pensiero cristiano. Unità però che è lontanissima da qualsiasi impostazione “totalitaria” a cui il Novecento ci ha tristemente abituato; la visione che ha Dante dell’impero è di un organismo che sappia armonizzare tutte quelle autonomie locali e nazionali che, su questioni di loro interesse diretto, godono della più piena autonomia: tanto che non è mancato chi abbia accostato quest’idea a quella di un organismo sovranazionale dei nostri giorni.

Già all’inizio del De Monarchia si avverte chiaramente che il potere imperiale è stato istituito per coordinare tutte le diverse finalità alle quali mirano le autorità inferiori e con queste ha in comune il mantenimento della pace: “Se dunque esiste un fine universale dell’intera società umana, sarà questo il fondamento con il quale saranno chiarite a sufficienza tutte le verità che bisogna in seguito provare: perchè sarebbe pazzesco credere che esiste il fine di una società e di un’altra e che non esiste un unico fine valido per tutte”.

Ma che intende Dante con la pace? Sarebbe errato considerare la pace solo come un fine della società, essa ne rappresenta soprattutto la premessa perchè, solo laddove essa sussiste ed è duratura, l’umanità si realizza compiutamente sia sul piano pratico (arti e commerci), sia su quello intellettuale, perchè lo studio e la ricerca hanno bisogno di quello stato d’animo che solo la pace riesce a garantire. Solo nella pace, poi, si realizza quel massimo di giustizia possibile che, in situazioni turbolente, è impossibile assicurare; grazie proprio all’amore che deve animare il monarca, riflesso dell’amor che muove il sole e l’altre stelle, libero e svincolato da qualsiasi desiderio che non sia il bene comune: “ E poiché vivere in pace è il bene supremo tra tutti i beni dell’uomo e la giustizia opera soprattutto e in primo luogo il bene supremo, sarà l’amore a fornire di maggior vigore la giustizia, e tanto maggiore sarà il vigore quanto più grande è l’amore.

Giustizia mosse il mio alto fattore… Iustizia et pax nella Commedia, qualche esempio. È nella Commedia, e più precisamente nei sesti tre canti delle tre diverse cantiche, che emerge con chiarezza il grande valore che il poeta dà alla pace. Per la verità, potremmo dire che questo è uno dei temi conduttori di tutto il poema: “Dante è il poeta della pace. Il maggiore di tutti i tempi, se non l’unico. È vangelo della pace la sua Commedia: perché di pace parla ognuna delle cento unità che lo compongono (…) Pace e concordia Dante invocò e contrattò anche dopo aver deciso di far parte per se stesso (…) esemplare è l’accordo da lui procacciato e firmato nel 1306 tra i Malaspina e il vescovo di Luni e questa linea di condotta egli mantenne fino all’ultimo. È noto come venne a mancare subito dopo il ritorno a Venezia, dove aveva portato la sua parola conciliatrice per conto dei signori che lo ospitavano, i Da Polenta.” Così un affermato dantista, Mario Aversano. Più modestamente, mi limiterò a pochi passi e a pochi, ma significativi esempi.

Partendo dal sesto canto dell’Inferno, vi parla si parla del Comune e il riferimento obbligato è Firenze. Dante si è impegnato a fondo nelle vicende politiche della sua città; mai con faziosità, ma sempre con l’obiettivo primario di ricercare il bene comune; ma il risultato fu l’esilio. Alla angosciosa domanda sul futuro della “città partita” Ciacco risponde tra l’altro:

Giusti son due, e non vi sono intesi:
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi

Una crisi morale, che provoca insicurezza, instabilità e faziosità e da cui risulta difficile uscire: il sangue sarà sparso in abbondanza, e una fazione soverchierà l’altra senza che si veda una via d’uscita. Ancora nel 1304, nella I Epistola Dante pregherà inutilmente il paciaro mandato da Benedetto XI di “di voler irrigare del sopore di tranquillità e pace quella Firenze così a lungo agitata e di tener raccomandati come pio padre noi che sempre siamo alla difesa del suo popolo”. Ma soprattutto, nel luglio quello stesso anno, rifiuterà un’altra soluzione violenta, quella che culminò nella battaglia della Lastra che vide la sconfitta dei Bianchi e dei Ghibellini, la compagnia “malvagia e scempia” da cui il poeta aveva ormai diviso le sue sorti quando si era reso conto che non era l’amore di patria a muoverli, bensì il rancore e il desiderio di vendetta (del resto, in tutte le invettive contro Firenze il poeta non chiede mai vendetta contro la propria città, ma giustizia). Ma il regime comunale sembrava comunque incapace di ristabilire se stesso, aprendo invece la strada a prepotenze di ogni genere.

Nel sesto canto del Purgatorio l’analisi si allarga all’intera penisola (e non solo): La corruzione dei comuni e delle repubbliche è dilagata, ormai, nell’intera penisola:

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!

La conseguenza di questa drammatica situazione è la perdita della pace. Ne deriva non solo l’insicurezza privata, ma dell’intera vita sociale, civile ed economica. Incertezza e sfiducia nelle città, nei mari, nei porti, guerra di tutti contro tutti:

E ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.

Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.

Da qui a ridursi a uno stato servile il passo è breve: governi arbitrari, non solo privi di regole, ma anche senza prospettiva. Tutto ciò genera lo sconforto dantesco: A questa decadenza politica delle istituzioni locali e nazionali può porre rimedio un’autorità che oggi definiremmo globale. Non sostituendosi a loro, ma ristabilendo quelle condizioni di legalità e di pace conseguenzacdel prestigio e dell’autorità di cui gode l’Impero. Purchè l’imperatore, beninteso, faccia il suo dovere: di qui la stoccata ad Alberto d’Asburgo che “tedesco”, ha dimenticato che Cesare deve essere sempre e comunque “romano”, qualunque sia la sua origine.

Il sesto canto del Paradiso è quello della “teologia dell’Impero” che certo al tempo di Dante non attraversava un momento felice ma il poeta è convinto che per superare le crisi non ci sia altra strada di un organismo sovranazionale che sappia richiamare ciascuno alle proprie responsabilità. Da qui il richiamo alla figura di Giustiniano che più di ogni altro, nell’immaginario medievale, richiamava l’idea di legalità e di giustizia, per via della codificazione del diritto romano e per il suo richiamo all’autorità imperiale di Roma. E proprio perché imperatore “giusto” per eccellenza

Cesare fui e son Iustinïano
che, per voler del primo amor ch’i’ sento
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano

L’imperatore non può che condannare lo spirito di parte e denunciare l’errore profondo di entrambe le fazioni:

Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
sott’altro segno, ché mal segue quello
sempre chi la giustizia e lui diparte;
e non l’abbatta esto Carlo novello
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli
ch’a più alto leon trasser lo vello.

I Guelfi non possono pensare di sostituire il giglio al segno divino dell’aquila, ma i Ghibellini non possono ridurre a parte ciò che deve essere universale, super partes, e che solo può essere garanzia di giustizia e di pace. E garantendo la pace che è sinonimo di convivenza civile, si può anche vivere in libertà. Grazie a questa “siamo sulla terra felici come uomini e in cielo come dei” (Monarchia, 1 12) ma questa libertà non può essere assicurata dalle buone intenzioni dei politici, si trattasse pure del migliore degli imperatori, ma deve essere garantita dalle leggi. Il diritto è per Dante, nella migliore tradizione romana, l’espressione della storia di una civiltà.

Buonconte e Farinata: vae victis? No, onore delle armi. Dante fu sempre coerente ai suoi ideali, ma non fu fazioso. Combatté, anche a rischio della sua vita, proprio qui a Campaldino, avendo, come ammette nella lettera purtroppo perduta tranne il frammento trasmessoci da Leonardo Bruni “temenza molta e nella fine allegrezza grandissima per li varii casi di quella battaglia”. Ma il sangue, la strage, la sofferenza, non furono mai per lui motivo di esaltazione anche solo momentanea: La violenza nel poema è sempre accompagnata alla desolazione, che sia lo scenario orrendo dei seminatori di discordia del XXVIII canto dell’inferno o il laco di sangue che scaturisce dalle vene di Jacopo del Cassero, colpito a morte. (Purgatorio V). Proprio le figure di Farinata e Buonconte sono un chiaro esempio dello spirito del poeta. È quantomeno curioso che a rievocare le due più grandi battaglie italiane della seconda metà del Duecento, a una delle quali aveva partecipato in prima persona, scelga due condottieri ghibellini: Farinata degli Uberti e Buonconte da Montefeltro. Per quanto riguarda il primo, sono indubbi il rispetto e la considerazione del poeta per l’antico comandante ghibellino; se inizialmente il loro incontro si configura come una sorta di “tenzone” in cui ciascuno dei due rivendica con fierezza le proprie radici e le proprie scelte, nella seconda parte avviene una sorta di riconciliazione proprio nel segno di Firenze; dopo aver ricordato “ lo strazio e il grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso” Dante ricorda però anche come in Farinata l’amore per Firenze sia stato superiore a ogni altra cosa; in occasione della dieta di Empoli (settembre 1260) il condottiero si oppose strenuamente ai suoi stessi consorti quando fu ipotizzata la distruzione totale di Firenze: emerge cosí l’ammirazione di Dante per la forza mostrata in quel frangente dal capoparte ghibellino, celebrato per questo episodio anche nella Cronica di Giovanni Villani, nella quale si riflette la tensione drammatica dei versi danteschi (Cronica, vii 81): l’amore per la sua città infatti lo portò ad affermare nell’agire politico la superiorità dell’amor di patria sull’interesse della parte. “Deh, se riposi mai vostra semenza” è l’augurio finale di Dante a Farinata (quasi un contraltare al se i fur cacciati): un auguro di pace, di fine delle ostilità e forse di riconciliazione.

Parte Guelfa Dante AlighieriÈ notevole il fatto che Dante, il poeta soldato che prese parte alla battaglia di Campaldino come feditore non solo non ci abbia trasmesso alcun vanto di vittoria o di onorate imprese, ma anzi sembri proporsi di suscitare in chi legge un orrore infinito: la scia di sangue che lascia sul piano un combattente della parte avversa, Buonconte da Montefeltro, mentre scalzato da cavallo cerca invano di scampare alla morte fuggendo a piedi. Né sembra necessario ipotizzare, come pur qualcuno ha fatto (senza che peraltro il testo dantesco autorizzi per nulla una tale lettura) che sia stato Dante stesso a uccidere Buonconte, come in una sorta di postuma riconciliazione o addirittura di “pentimento”: il poeta non era di sicuro un “guerrafondaio” ma in battaglia non ci si scambiano riverenze o cortesie. E comunque la cosa, oltre ad essere indimostrabile, è del tutto irrilevante. Dante salva Buonconte per una “lacrimetta” mentre condanna molti nobili illustri cittadini della sua città “partita”. Eppure proprio Buonconte aveva sferrato un vigoroso attacco al centro dell’esercito nemico, guidando un assalto di cavalleria ad incunearsi profondamente tra le schiere guelfe; ma la vicenda del comandante ghibellino figlio di Guido da Montefeltro viene rievocata dal poeta con accenti di rispetto e di commozione. Buonconte è solo, tra i vivi nessuno si cura di lui e chiede proprio al suo antico nemico di aiutarlo nel suo cammino di espiazione, ancora agli inizi:

Poi disse un altro: “Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l’alto monte,
con buona pïetate aiuta il mio!

Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte

E io a lui: “Qual forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?

Una domanda la cui risposta non ci restituisce solo un crudo spaccato di guerra, ma il racconto – quasi miracoloso – di una conversione. Dante ci racconta una morte in battaglia come tante, nel dolore e nel sangue, ma resa eccezionale dal pentimento e dalla salvezza. Per questo Buonconte sottolinea il fatto che l’Archiano, portando via con violenza il suo corpo, abbia “sciolto la croce” che il guerriero aveva composto sul suo corpo, in un gesto estremo di pentimento e di pietas. Nonostante il dono il salvezza eterna sia incommensurabile, nelle parole di Buonconte si avverte ancora un senso di dispiacere per la stupida e inutile violenza patita dal suo corpo ad opera del diavolo, che crea una vera e propria bufera infernale. Dopo la battaglia pare ci sia stato effettivamente un violento temporale, ma qui al di là del dato “realistico” pure molto sottolineato e insistito il poeta sembra piuttosto ricordarci che la violenza e la sopraffazione – a volte tanto più assurda quanto più “inutile” sono per l’appunto opera del diavolo, del “mal voler che pur mal chiede con lo ’ntelletto”. Accenti dunque tutt’altro che “trionfalistici” per quella battaglia a cui pure il feditore Dante aveva partecipato dando il suo contributo alla vittoria e provandone una più che comprensibile gioia; ma senza ignorare “di che lacrime grondi e di che sangue” e soprattutto senza calpestare il nemico vinto, a cui invece tende la mano nel nome della comune condizione umana e di quel legame di carità che solo può rendere l’uomo immagine e somiglianza di Dio.

 

Autore

Domenico Del Nero

 

 

 

Testo della conferenza a Poppi in occasione dell’anniversario della battaglia di Campaldino, Domenica 11 giugno 2023