Nel 1294 Carlo Martello, che sarebbe morto il 12 agosto 1295 a Napoli, si recò a Firenze, dove incontrò i suoi genitori che rientravano dalla Francia. In questa occasione, per accoglierlo con tutti gli onori del caso, la capitale toscana inviò una delegazione della quale pare facesse parte anche Dante Alighieri. In ogni caso appare quasi certo che il Sommo Poeta e il giovane principe angioino abbiano avuto modo di conoscersi di persona e apprezzarsi vicendevolmente, anche per il fatto di condividere gli stessi gusti letterari. Carlo Martello era il figlio primogenito dell’erede al trono di Napoli, Carlo II detto lo Zoppo, duca di Calabria, figlio primogenito di re Carlo I di Napoli, e di Maria Arpad d’Ungheria (1257 ca. – 25 marzo 1323), figlia del re d’Ungheria, Stefano V e di Elisabetta di Cumania. Tra i suoi fratelli vi furono San Ludovico di Tolosa, il re di Napoli Roberto d’Angiò e Filippo I di Taranto. Nella Divina Commedia e precisamente in Paradiso VIII, una delle anime che si fa più vicina a Dante e’ quella di Carlo Martello che dichiara di essere pronta, come gli altri beati, a soddisfare ogni richiesta del poeta. Spiega che essi ruotano insieme all’intelligenza angelica dei Principati, cui Dante stesso si rivolse con la canzone Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete, e sono talmente pieni di amore che pur di compiacerlo sono disposti a fermarsi un poco. Dante si rivolge con uno sguardo a Beatrice, che risponde con un cenno di assenso, quindi torna a parlare all’anima e le chiede di presentarsi. La luce che avvolge il beato si fa assai più splendente, tale è la gioia che egli prova nel rispondere a Dante.

Il beato spiega di essere vissuto poco tempo sulla Terra, mentre se fosse rimasto lì più a lungo si sarebbero evitati molti mali ora presenti. La sua gioia lo avvolge completamente di luce, rendendolo inconoscibile a Dante che in vita lo amò molto e con ragione: se lui fosse vissuto più a lungo, avrebbe ricambiato il suo affetto in modo adeguato. Egli si presenta come il signore atteso nella terra di Provenza, solcata dai fiumi Rodano e Sorga, e in Italia meridionale, dove sorgono le città di Bari, Gaeta e Catona e dove scorrono i fiumi Tronto e Verde. Era già stato incoronato re d’Ungheria, la terra attraversata dal Danubio, e avrebbe regnato anche sulla Sicilia, dove l’Etna erutta per un fenomeno naturale e non per la presenza del gigante Tifeo, se il malgoverno degli Angioini non avesse scatenato la rivoluzione del Vespro. E se il fratello di Carlo Martello, Roberto d’Angiò, ponesse mente a questo, eviterebbe l’avara povertà dei Catalani per non subire danni: bisogna che lui stesso o altri pongano rimedio, per evitare che il regno di Napoli non subisca più gravi conseguenze. Roberto, pur discendendo da antenati di indole liberale, ha un’indole gretta e meschina, per cui avrebbe bisogno di truppe che non badassero unicamente a intascare i guadagni.

Dante manifesta la sua gioia nel parlare con Carlo Martello, osservando che il beato la può leggere nella mente di Dio, il che rende il poeta anche più lieto. Ora Dante chiede allo spirito di chiarirgli come sia possibile che da un padre liberale nasca un figlio avaro. Carlo risponde dicendosi pronto a illuminare Dante con la verità e spiega che Dio, che fa ruotare i Cieli del Paradiso, fa che la sua Provvidenza diventi virtù operante negli astri. Dio determina non solo le nature umane per la loro essenza, ma anche per il loro fine nel mondo, per cui ogni cosa stabilita dalla Provvidenza si avvera in base a un determinato scopo. Se non fosse così, le influenze celesti sarebbero rovinose per gli uomini, il che non è possibile dal momento che le intelligenze angeliche che muovono i Cieli non sono manchevoli, come non lo è Dio. Carlo chiede a Dante se su questo punto necessiti di un’ulteriore spiegazione, ma il poeta si dichiara soddisfatto. Carlo prosegue spiegando che l’uomo sulla Terra deve soprattutto essere cittadino, cosa che trova Dante d’accordo, e ciò richiede che gli uomini svolgano diverse funzioni e mestieri, come argomentato da Aristotele. Dunque è inevitabile che l’indole degli uomini sia volta a volta diversa, per cui uno nasce legislatore (Solone) e un altro re (Serse), uno sacerdote (Melchisedech) e un altro ingegnere (Dedalo). La virtù dei Cieli opera queste distinzioni, ma non distingue tra le varie casate: perciò accade che Esaù sia del tutto diverso dal fratello Giacobbe, mentre Romolo ha un padre talmente umile che si favoleggia essere nato da Marte. Se la Provvidenza divina non operasse in tal modo, i figli seguirebbero sempre le orme dei padri e ciò non sarebbe utile alla società. Ora, afferma Carlo, Dante ha compreso perfettamente, ma vuole aggiungere ancora un corollario alla sua spiegazione. Se la disposizione naturale trova l’ambiente intorno a sé discordante per via della sorte, gli effetti sono sempre negativi; e se gli uomini badassero di più alle inclinazioni naturali di ciascuno, avrebbero persone più rette e adatte alla loro funzione. Invece il mondo, conclude Carlo, forza a diventare monaco chi sarebbe nato per diventare guerriero, e costringe a diventare re chi sarebbe portato alla vita religiosa, per cui il cammino degli uomini è fuori dalla strada tracciata da Dio.

Protagonista assoluto del Canto è Carlo Martello, il primogenito di Carlo II d’Angiò che Dante conobbe giovanissimo a Firenze nel 1294 e al quale fu legato da affettuosa amicizia, per cui l’episodio si può accostare agli incontri con Casella, Nino Visconti e Forese Donati nel Purgatorio. Carlo è incluso fra gli spiriti amanti del III Cielo, anche se ignoriamo per quale motivo Dante faccia questa scelta: è probabile che il poeta vedesse nell’amico l’esemplare di buon sovrano, che come detto nella Monarchia (I, 11) deve essere governato dalla carità come virtù opposta alla cupidigia, il che spiega anche il duro attacco rivolto a suo fratello Roberto nel corso del Canto. Certo Dante lo colloca fra i beati a meno di cinque anni dalla morte e il suo esempio è molto diverso da quello di Cunizza e Folchetto, esempi entrambi di personaggi che arsero prima di amore sensuale, poi si ravvidero e si rivolsero all’amore spirituale; del resto all’inizio di questo Canto Dante spiega che l’influsso all’amore che promana dal Cielo di Venere non è quello all’amore fisico che credevano le genti pagane e che può portare alla dannazione, bensì ovviamente quello all’ardore di carità che deve condurre a Dio, come del resto aveva già chiarito in Conv., II, 5 con la differenza che là tale influsso era riferito all’intelligenza angelica dei Troni, mentre qui ai Principati: e non è il solo punto del Convivio ad essere rivisto da Dante nella III Cantica, come si è visto nel Canto delle macchie lunari.

L’incontro con Carlo Martello è diviso in due parti, che corrispondono all’autopresentazione del beato con le critiche rivolte al fratello Roberto (vv. 49-84) e al discorso sulle inclinazioni individuali (94-148) che si riallaccia a quello più ampio degli influssi astrali. La prosopopea di Carlo è in stile alto e solenne, come si conviene a un personaggio del suo rango e molto simile per tono a quella di Giustiniano nel Canto VI: dopo essersi presentato come amico di Dante e aver rimpianto di non essere vissuto più a lungo per non aver potuto dimostrare a Dante il suo affetto e non aver evitato il malgoverno degli Angioini, il beato allude a se stesso come l’erede dei domini di Provenza, Napoli e Ungheria, senza mai fare il proprio nome direttamente. Le tre regioni vengono anch’esse indicate con una elegante perifrasi geografica, in quanto la Provenza è la terra solcata dai fiumi Rodano e Sorga, il regno di Napoli è il corno d’Ausonia (la punta estrema dell’Italia, ovvero le penisole calabra e salentina che formano una mezzaluna) dove sorgono le città di Bari, Gaeta e Catona (che erano poste ai confini del regno) e il cui confine settentrionale è segnato dal Tronto e dal Liri, mentre l’Ungheria è nuovamente indicata come la terra attraversata dal fiume Danubio. Carlo parla poi della Sicilia che fu sottratta al dominio angioino dalla rivolta dei Vespri, indicata nuovamente col termine classico Trinacria, poi coi due capi di Pachino e Peloro che ne costituiscono gli estremi a nord e a sud, infine col riferimento mitologico a Tifeo che non è la causa naturale delle eruzioni dell’Etna, dovute in realtà al nascente solfo: ciò porta Carlo a rivolgere il suo duro attacco alla mala segnoria degli Angioini sull’isola, causa prima secondo Dante della loro cacciata a favore degli Aragonesi, e poi al malgoverno del fratello Roberto re di Napoli che dovrebbe prendere esempio dalla storia passata per non commettere gli stessi errori. Roberto viene criticato in quanto gretto e meschino, diversamente dalla liberalità dei suoi predecessori (probabilmente il beato si riferisce alla stirpe angioina in genere e non al padre, Carlo II d’Angiò altrove duramente attaccato da Dante), per cui meglio farebbe a modificare la sua condotta se vuole evitare di danneggiare lo Stato e fare la stessa fine di Carlo I in Sicilia. Qui Dante prosegue la sua dura polemica contro gli Angioini, colpevoli ai suoi occhi di aver cacciato Manfredi di Svevia dal regno di Napoli con l’appoggio della Chiesa e di governare malamente i territori a loro sottoposti, cioè principalmente la Provenza e l’Italia meridionale: Dante ha già più volte sottolineato le colpe di Carlo I d’Angiò e del figlio Carlo II lo Zoppo (cfr. Purg., VII, 112 ss.; XX, 61 ss.), mentre lo stesso Giustiniano nel Canto precedente (vv. 106-108) ha severamente ammonito Carlo II a non voler abbattere l’aquila imperiale, simbolo dell’unica autorità politica riconosciuta da Dante. Il lamento di Carlo Martello è quindi quello di un buon principe che avrebbe potuto essere un sovrano migliore di quelli attualmente presenti in Provenza e a Napoli, specie pensando al fatto che Roberto aveva ingiustamente sottratto il dominio di Napoli al figlio Caroberto (di ciò c’è forse un accenno profetico in IX, 1-6); la polemica di Dante è ancora una volta contro i sovrani temporali che tentano di ribellarsi all’autorità imperiale con l’appoggio della Chiesa, come Filippo il Bello re di Francia, per cui la morte prematura di Carlo Martello ha causato molto… di mal che il principe angioino, vivendo più a lungo, avrebbe potuto evitare.

L’accusa contro Roberto d’Angiò la cui indole avara è diversa da quella dei padri porta poi Dante a chiederne conto a Carlo, il quale nella seconda parte del Canto affronta la delicata questione delle inclinazioni individuali: essa si ricollega a quella più ampia degli influssi celesti, quindi è un aspetto del problema più volte toccato da Beatrice in questo inizio di Cantica (specie nei Canti I, IV-V e VII). Dante ha già chiarito che gli influssi delle stelle non determinano le azioni degli uomini (Purg., XVI) né il loro destino, tuttavia indirizzano la vita dei singoli individui che, quindi, nascono ognuno con una particolare inclinazione: Dante si rifà ovviamente al pensiero cristiano e anche ad Aristotele, che in varie opere (De anima, III, 9; Politeia, I, 1 e altrove) sottolinea la necessità che gli uomini svolgano diversi uffici e varie funzioni in qualità di cittadini di uno Stato, per cui ci sono artefici, artisti, uomini politici e così via. Dante spiega attraverso le parole di Carlo che non sempre la Provvidenza divina nell’ordinare le inclinazioni distingue l’un da l’altro ostello, cioè tiene conto delle famiglie: non necessariamente, allora, chi è figlio di re sarà un buon sovrano, e viceversa, per cui il beato ammonisce gli uomini a tener conto delle disposizioni individuali e a non forzare le persone a un destino che non gli compete, tenendo conto unicamente della stirpe cui appartengono. Tale affermazione trae spunto dal discorso politico fatto poco prima, quindi Dante sottolinea che molti dei mali del suo tempo nascono dal fatto che i successori dei governanti sono inadatti a questa funzione e vengono designati unicamente per linea dinastica: questo vale certamente per Roberto d’Angiò, ma anche per il padre Carlo II nei confronti di Carlo I, come del resto Dante aveva già affermato nella rassegna dei principi negligenti di Purg., VII, dove si diceva che raramente la virtù dei padri si trasferisce nei figli perché essa è dispensata Dio, che agisce secondo i suoi voleri imperscrutabili di cui gli uomini però non tengono conto, il che è causa del malgoverno e dei problemi politici dell’Italia del tempo di Dante.

 

Autore

Andrea Claudio Galluzzo