Parte Guelfa cavalcata delle panatenee Fidia PartenoneI potenti cavalli di Tessaglia furono protagonisti sotto le mura di Troia guidati da intrepidi achei su sofisticati carri da combattimento e vennero abbondantemente documentati nell’Iliade, opera ascrivibile al IX secolo avanti Cristo narrante le gesta della guerra di Troia, combattuta nella tarda età del bronzo, tra la fine del XIII e l’inizio del XII secolo. Con gli equidi, negli scontri tra carri e nelle gare di velocità negli ippodromi, furono valorosi eroi gli aurighi. Celebre il caso di Ettore il quale dovette cambiar auriga per ben tre volte, perché nello scontro i cocchieri perdevano la vita più facilmente del guerriero che montava sul carro in posizione più protetta e si scontrava con l’avversario ben protetto dalla corazza e dallo scudo.

Il primo auriga di Ettore fu Eniopeo, ucciso da Diomede, il secondo, Archeptolemo, abbattuto da Teucro, infine il terzo, Cebrione, vittima di Patroclo. Particolarmente eroica fu anche la gara all’ippodromo di Olimpia del 476 avanti Cristo cantata da Pindaro per descrivere il confronto tra cavalieri in una competizione al galoppo trionfata dal destriero sauro Ferenico, portatore di vittoria, di proprietà di Ierone, tiranno di Siracusa, il quale commissionò a Pindaro un epinicio in onore del successo, un canto corale dalla metrica rigorosa composto in onore degli atleti vittoriosi. Le più grandi conquiste militari dell’uomo nel mondo antico venivano spesso associate al cavallo, anche soltanto in via simbolica. La storia ci ha tramandato la vicenda di Bucefalo, il cavallo del più grande conquistatore dell’antichità, Alessandro Magno, ma sono parimenti noti i nomi dei cavalli di numerosi imperatori romani, come Incitatus, il cavallo di Caligola. Nell’epica classica e nella storia greco-romana molti fieri corsieri si sono dunque ben guadagnato il loro meritato posto d’onore accanto a re ed eroi.

LA SCIENZA

Agli occhi degli antichi i cavalli facevano parte a pieno titolo del mito e, più in generale, delle origini del mondo. Avvicinarsi ai cavalli dei Greci e dei Romani è un esercizio che richiede pazienza e apertura mentale. Nel leggere trattati come il De natura animalium di Eliano o il De partibus animalium di Aristotele, un biologo contemporaneo rischierebbe di rimanere disorientato e deluso: non vedendo all’ opera le categorie e i metodi di ricerca cui la scienza moderna lo ha abituato, potrebbe avere la tentazione di giudicare approssimativi, intuitivi, disordinati, folklorici, quando non addirittura «selvaggi», i saperi elaborati in questi testi. Un rischio opposto e complementare, tuttavia, potrebbe correrlo anche quell’ antropologo che cerchi di applicare in maniera acritica le categorie dell’indagine storica ed etno-zoologica a un mondo, quello antico, che non è sempre automaticamente equiparabile alle piccole comunità di interesse etnografico di cui in genere si occupa, che sviluppano quasi sempre soltanto saperi orali e locali, quando invece, nella storia del pensiero dei Greci e dei Romani, siamo davanti anche a grandi sintesi, come ad esempio alla Naturalis historia di Plinio il Vecchio, o anche a tentativi di costruzione di sistemi di ricerca organici e coerenti che non si limitano a riprodurre il senso comune diffuso nel loro tempo. È quello che ad esempio succede con Aristotele, che alcuni – esagerando – hanno addirittura visto come il vero padre della zoologia occidentale. Rispetto a questi due estremi, diremo subito che l’atteggiamento corretto consiste forse nel cercare di aspettarsi l’inaspettato, e di lasciarsi sorprendere. Volendo semplificare, bisogna partire dall’assunto che i cavalli dei Greci e dei Romani erano un po’ come i nostri e tuttavia erano di gran lunga diversi. Questo perché pensare un cavallo, relazionarsi con esso, o addirittura «costruire» la categoria stessa di cavaliere e cavalleria nel mondo antico non è qualcosa di scontato o, come direbbero gli antropologi, “universale”. A ogni cavallo, in fondo, è associato un insieme di nozioni e saperi che muta con il mutare del tempo e delle società di riferimento e che è costituita non soltanto dalle caratteristiche tassonomiche o morfologiche, bensì anche da un campionario di usi e tratti simbolici e da un insieme di pratiche e di modi – più o meno riflessi, più o meno articolati – di guardare e pensare il mondo. Gli atteggiamenti che abbiamo in relazione ai cavalli, ed alle specie non umane in genere, dipendono in larga parte non tanto o non soltanto dalle specie stesse, quanto dal modo di rappresentarle, dalle credenze e dalle teorie che spiegano la loro origine e il loro funzionamento biologico, dal modo di contrapporle a quella costruzione, tutto sommato artificiale, che è l’umanità. In definitiva, pensare un cavallo, o, più genericamente, l’animalità, è qualcosa che dipende anche dai quadri culturali di riferimento. Per spiegare tali quadri culturali, occorre compiere un agile percorso che attraversi i paesaggi del mito, della letteratura, della storia della filosofia e della vita quotidiana dei Greci e dei Romani dall’VIII secolo avanti Cristo fino al VI secolo dopo Cristo, fatidico momento dell’introduzione delle staffe. Occorre comprendere e tratteggiare una vera e propria storia delle teorie che i Greci e i Romani hanno elaborato sulla mentalità equestre e i suoi simboli. Serve comprendere l’età imperiale e la sua relazione tra uomini e i cavalli con l’evoluzione dell’allevamento, del lavoro, della caccia, del sacrificio, degli spettacoli, della guerra, della magia, della medicina e del rapporto con i cavalli come animali di affezione. La ricerca storica sull’arte equestre antica è stata per troppi anni ritenuta dall’accademia italiana ingiustamente marginale. A esclusione di alcune razze che si sono estinte, il mondo in cui vivevano gli antichi è, mutatis mutandis, lo stesso mondo in cui viviamo noi: anche i Greci e i Romani, come noi oggi, avevano a che fare con cavalli, cani e tutti gli altri animali che conosciamo. Anche loro avevano allevamenti, vivai e adottavano pratiche zootecniche; curavano le loro bestie da soma; avevano cavalli da guerra e da compagnia; anche loro ne uccidevano alcuni e li mangiavano. In alcuni casi dopo averli sacrificati in onore di un dio oppure, a volte, si astenevano dal farlo in preda a dubbi etici o a slanci che potremmo definire mistici. Dunque niente di nuovo sotto il sole? Non proprio. Senza andare troppo indietro nel tempo e senza scomodare i lenti processi dell’ evoluzione, che, come sappiamo, si muove sul piano delle ere geologiche, dal V secolo avanti Cristo ad oggi molte delle razze di equidi che popolano questo pianeta hanno conosciuto grandi e piccoli stravolgimenti: hanno mutato habitat adattandosi, ad esempio, a scenari urbani dove prima c’erano boschi o paludi; hanno dovuto fronteggiare cataclismi e lente sedimentazioni che hanno cambiato impercettibilmente la loro etologia; hanno sviluppato, in alcuni casi, vere e proprie forme di “cultura” e di trasmissione del sapere del tutto analoghe a quelle umane . Se nel frattempo non ce ne siamo accorti, non è stato tanto perché gli animali non hanno avuto una “storia”, quanto perché, per molto tempo, abbiamo guardato altrove, non ritenendo le loro vicende un oggetto degno delle nostre indagini e ricerche. Aldilà dei mutamenti, spesso impercettibili, dei cavalli e dei loro comportamenti c’è comunque un altro dato da mettere in rilievo. Ammesso che, dalla rivoluzione del Neolitico in poi, molti degli animali degli antichi siano in fondo rimasti pressoché gli stessi, con comportamenti e morfologie non troppo dissimili da quelli odierni, è il nostro modo di guardarli che è cambiato. Il fatto è che mentre abbiamo l’impressione che il nocciolo della realtà rimanga grosso modo immutato, a mutare effettivamente, assieme al linguaggio che rimanda a essa, sono anche il senso che si attribuisce alle cose e il modo di segmentare il mondo, di classificare i suoi elementi, di connetterli fra loro e, in ultima istanza, di adattarli ai quadri culturali all’interno dei quali ci muoviamo. Ad esempio, grazie alle ricerche archeo-zoologiche, sappiamo che fino a prima del XIX secolo dopo Cristo, i cani di razza piccola erano leggermente più grandi di quelli odierni, mentre quelli di taglia più grande erano di poco più piccoli; sappiamo anche che, prima delle selezioni artificiali operate dai gruppi cinofili britannici di età vittoriana, il numero delle varietà canine era anche di gran lunga inferiore a quello odierno; tuttavia, a dispetto di questi slittamenti che si sono verificati soprattutto negli ultimi due secoli, è chiaro che, quando noi diciamo cane, quando un romano diceva canis, quando un greco diceva kyon, in ultima istanza ci si riferisce tutti più o meno alla stessa entità extra linguistica. Il referente, per così dire, non è mutato poi di molto: il cane rimane sempre quell’animale a quattro zampe che si aggira nelle stanze delle nostre dimore, che fa la guardia alle nostre pecore e ai nostri beni, che ci guarda con sguardo implorante mentre mangiamo qualcosa davanti a lui, che scodinzola giulivo quando torniamo in casa, che ringhia agli sconosciuti. Ma, in fondo, siamo così sicuri che i termini cane, canis e kyon rimandino allo stesso immaginario o, per essere più precisi, alla stessa maniera di “fabbricare” culturalmente il mondo? Le rappresentazioni relative a questo animale nella Grecia antica, mostrano come i dati enciclopedici – reali e non – sugli animali funzionino come componenti di un quadro culturale più ampio e complesso. Il kyon, ad esempio, non è semplicemente un animale: non è soltanto lo stesso animale a cui noi ci riferiamo quando pronunciamo la parola cane. Tanto per cominciare, non è il kyon, ma la kyon, al femminile; è cioè un essere buono per pensare il versante dell’alterità sessuale e, nello specifico, per connotare tutte le sue manifestazioni più deleterie e negative: è sì un fedele animale da compagnia, il commensale della tavola degli uomini per eccellenza, ma, come la donna, quella percepita e immaginata dai Greci, si intende, è anche e soprattutto un essere subdolo, inaffidabile ed emblematicamente incline alla trasgressione e al tradimento; è prossimo alla sfera culturalizzata dell’umano, ma anche troppo vicino all’istintiva ferocia dei lupi, al punto da essere pensato come un animale necrofago con il potere di degradare, fino a renderlo immondizia, il corpo degli umani defunti, corpo che è capace di trattare alla stregua degli stessi resti dei banchetti che i suoi padroni mettono da parte per lui. Ammesso dunque che i cavalli e gli altri animali di oggi non siano più quelli di una volta, o meglio che il nostro sguardo su di essi sia mutato, dobbiamo però cercare di capire, anche, cosa si intenda per “animale”. Di solito, in italiano usiamo questo vocabolo per rendere i termini zàon greco e animai latino. Il fatto è però che, anche in questo caso, le nozioni non sono del tutto sovrapponibili, e che il nostro modo di tradurre è per certi versi un modo di tradire. Se partiamo dalle nostre categorie, dobbiamo prima di tutto rendere conto del fatto che l’animale non esiste: i filosofi, i linguisti e i filosofi del linguaggio ci ricordano che il termine italiano ”animale” è semplicemente un’entità priva di referenza e rimanda a una nozione generica e priva di consistenza ontologica, una nozione che di fatto annulla tutte le singole differenze, individuali e di specie, e finisce per allontanare dalla concreta determinatezza dei singoli soggetti esistenti. La categoria generica di animale, la cui definizione è quasi sempre pensata in negativo rispetto alla definizione dell’umano, si riferisce a quel vivente privo di qualcosa: linguaggio, ragione, capacità di ridere, pollice opponibile, arte, mano, possibilità di morire e così via. L’animale è cioè un concetto funzionale non tanto a conoscere o esperire il mondo dei viventi quale esso è, quanto piuttosto a costruire una linea di separazione fra l’antroposfera da un lato e la zoosfera dall’altro. È il fenomeno che gli antropologi denominano antropopoiesi , ovvero la fabbricazione culturale dell’umano per mezzo di contrapposizioni simboliche con la divinità da un lato e, dall’ altro, con un mondo animale immaginato, costruito e connotato artificialmente ora come lato oscuro su cui si riflettono tutti i vizi e le negatività dell’umano, che vengono proiettati al di fuori della propria sfera e scaricati sulla sfera altra dell’animale, ora, anche, come modello morale paradigmatico quando, per esempio, l’animale incarna lo stato positivo di naturalità esemplare cui gli umani devono tendere. Nel mondo greco e nel mondo romano, esistono dunque diversi modi di costruire culturalmente l’umano e l’animale, ora in termini di separazione più o meno netta, ora in termini di contiguità. Il dato interessante è però che né i Greci né i Romani sembrano avere sviluppato una categoria analoga a quella del nostro “animale” contemporaneo. L’espressione O άνθρωπος και τα άλλα ζώα ovvero “l’uomo e gli altri animali”, inaugurata dai Presocratici e usata ancora da Platone e Aristotele, racconta molto. Il grande confine che attraversa il mondo greco è quello che divide l’umanità e le bestie selvatiche come l’orso, il cervo o il leone, che non vivono nello spazio antropizzato o che hanno comportamenti aggressivi, minacciosi o comunque elusivi. Per il resto, zàon non significa, alla lettera, “animale”, bensì, più genericamente, essere munito di zàé, ovvero essere munito di vita. Addirittura i Presocratici includevano nella categoria degli zoa perfino le piante, nell’ ottica di una contiguità universale assoluta, mentre la prima segmentazione fra il mondo dei vegetali da un lato e degli esseri semoventi dall’altro ha luogo con filosofi come Platone e Aristotele, per i quali l’uomo, anche se superiore a tutte le altre forme di vita, è comunque solo una fra le tante creature che popolano la terra. In Platone uomini, animali e dèi sono tutti classificati come zoa in opposizione, appunto, ai vegetali. Pur con qualche significativa oscillazione, mentre i primi e gli ultimi sono dotati di logos, ovvero di ragionamento, i secondi non lo sono. Per converso, mentre i primi e i secondi sono mortali, gli ultimi, ovvero gli dèi, sono immortali. La differenza è tutta qui. E non è cosa da poco! Per il resto, quello che accomuna questi tre ordini è il fatto di vivere e muoversi. Ma anche questo, a pensarci bene, non è roba da poco: le piante, ad esempio, vivono sì, come gli uomini, gli animali e gli dèi, ma non si muovono, non hanno percezioni, né tanto meno possono avere opinioni del mondo che le circonda. Nessuno stupore se nella cultura ellenistica alcuni cavalli sono campioni di umanità tanto da venire considerati quasi divini. Nel 342 avanti Cristo, Filippo il Macedone acquistò da Filonico di Tessaglia il cavallo Bucefalo all’impressionante somma di tredici talenti. Ben presto si rese conto delle difficoltà di domare il cavallo e pensò di restituirlo al precedente proprietario, tanto questi era recalcitrante alla monta e turbolento. Il giovane principe Alessandro, osservando il comportamento del cavallo, si propose di montarlo e, nella sorpresa generale, vi riuscì. Alessandro aveva notato che Bucefalo aveva paura dei movimenti della propria ombra e quindi, lo rivolse col muso verso il sole prima di lanciarsi in sella. Da allora, Bucefalo, equide di pura razza tessalica, non si lasciò montare da nessun altro e Alessandro Magno non ebbe un altro destriero. Il cavallo accompagnò per quasi un ventennio il suo padrone nelle battaglie, alla conquista del mondo conosciuto. Il sodalizio tra Bucefalo e Alessandro non fu spezzato che dalla morte: durante la battaglia dell’Idaspe che contrappose i macedoni all’armata di Poro, re indiano della regione del Punjab, nell’anno 326, Bucefalo riportò ferite mortali. Malgrado ciò, non permise al suo padrone di montare un altro cavallo e, facendo appello alle ultime sue forze, lo portò alla vittoria. La stessa sera, coperto di sudore e di sangue, Bucefalo si stese al suolo e morì per le ferite ricevute, all’età di vent’anni. Fu sepolto con gli onori militari e sul luogo della sua sepoltura fu fondata la città Alessandria Bucefala. La leggenda narra che vi fosse un rapporto di speciale affinità tra Alessandro e Bucefalo. A quanto pare i due erano nati lo stesso giorno a distanza di dieci anni l’uno dall’altro e Bucefalo veniva rappresentato come specchio di Alessandro Magno, quasi un suo doppione metaforico.  Il messaggio è che Bucefalo non sia da considerarsi meno umano di Alessandro. La continuità fra umano e animale è sottolineata da Platone in maniera ancora più radicale nel Timeo, dove si spiega che le diverse specie animali comprese le donne, che sono viste come la prima forma di degenerazione dall’uomo, sono il frutto di reincarnazioni di anime umane. Quanto ad Aristotele, la stessa gerarchia delineata nelle sue opere biologiche non appare affatto separativa. Nel De anima, ad esempio, si distinguono tre diverse tipologie di anima; quella vegetativa, quella sensitiva e quella razionale, le quali però non si escludono a vicenda, poiché l’ultima include la seconda e la prima; la seconda include la prima; la prima non include nessuna delle prime due funzioni, che sono pensate come sovraordinate rispetto a essa: le piante hanno solo l’anima vegetativa, che le porta unicamente a nutrirsi e crescere; i cavalli e gli animali per i pensatori greci antichi sono non umani e sono dotati dell’anima vegetativa e dell’ anima sensitiva che li induce a muoversi e li porta a percepire il mondo circostante mentre gli uomini hanno, invece, in aggiunta alle prime due forme di anima, anche il logos, che comprende, appunto, la facoltà di ragionare, argomentare e parlare. Questa tripartizione, tuttavia, non crea delle vere e proprie barriere fra le classi dei viventi di vegetale, animale e umano, bensì fra le diverse tipologie delle funzioni vitali. Del resto, Aristotele ribadisce più volte, nelle altre sue opere biologiche, che la natura non fa salti: “E così la natura passa gradualmente dagli esseri inanimati agli esseri animati, al punto che, per effetto della continuità, la linea di confine e il punto intermedio fra entrambi gli stadi non appaiono manifestamente. Dopo il genere degli esseri inanimati, infatti, c’è in primo luogo il genere delle piante. Fra queste, poi, ci sono diversi gradi di differenza delle une nei confronti delle altre, perché alcune sembrano partecipare in misura maggiore di altre alla vita animata. E tutto il genere, nel complesso, sembra quasi animato se messo in relazione ad altri corpi, ma sembra inanimato se viene messo a confronto con gli animali”. Se dunque la cultura greca non conosce l’animale come effetto della lingua, perché sia gli uomini che gli animali sono zàa, il laboratorio filosofico di Platone e Aristotele crea il concetto metafisico di animale. Qualcosa di analogo, in fondo, accade in ambito latino. Anche a Roma, infatti, esistono due termini, animal e animans, che indicano indistintamente, sul versante della biologia, sia gli uomini che gli altri animali non umani. Più in particolare, mentre le ferae sono di fatto l’analogo dei theria dei Greci, animalia e animantia sono tutti gli esseri muniti di anima, ovvero, più che la nostra “anima”, il “soffio” o il “respiro”, che è quella forza che ci permette di agire e di provare sensazioni e che quindi mantiene un organismo in vita. Anche a Roma c’è, poi, un’espressione analoga al t’alla zoa dei Greci: cetera animalia, appunto, che indica gli altri esseri muniti di soffio vitale rispetto all’uomo, che nel De inventione di Cicerone è, ad esempio, classificato come animalis pars ovvero una specie di animale. Anche a Roma, infine, come in Grecia, la separazione fra umano e animale avviene, principalmente, sul versante della morale. A sottolinearlo con forza è Sallustio, che per molti versi sembra aver fatto tesoro della lettura del Timeo platonico: “Tutti gli uomini che bramano ergersi sugli altri esseri muniti di anima devono sforzarsi con ogni mezzo per non trascorrere la propria vita nel silenzio, come gli armenti, che la natura ha fatto con il capo chinato verso la terra e schiavi del ventre”. Ecco dunque che, sebbene anche l’uomo sia un animal, il termine in questione può pure trasformarsi in una parola d’offesa. Quando infatti Cicerone arringa contro il corrotto Gaio Licinio Verre, non esita ad apostrofarlo come tam perfidiosum, tam importunum animal, ovvero un animale tanto perfido, tanto molesto. Si capisce però che animal, da solo, non basta: proprio perché indica il grado zero della vita, qualcosa cioè di totalmente generico, o meglio aspecifico, è sempre necessario almeno un aggettivo per qualificare e chiarire meglio l’enunciato che lo contiene. Nel caso del propretore della Sicilia, che si troverà costretto a scappare da Roma per evitare la condanna che incombe sul suo capo, Marco Tullio Cicerone, l’uomo nuovo, il brillante oratore di Arpino dovrà aggiungere al sostantivo, appunto, gli aggettivi perfidiosus e importunus. Diversamente, sempre Cicerone, quando dovrà elencare le specificità dell’essere umano, nel De legibus, dovrà esprimere invece che si tratta di un animal sagace, molteplice, acuto, memore, pieno di ragione e di consilium, ovvero di ingegno, inteso come capacità di deliberare e trovare soluzioni. Ancora una volta, cioè, vediamo all’opera il modello della differenza antropologica, e ancora una volta, come avviene con la filosofia greca (di cui l’élite tardorepubblicana romana comincia a essere imbevuta), è proprio la funzione della ragione a marcare la separazione. E la ragione porta con sé, come attributi conseguenti, la notitia dei, la nozione della divinità, che gli animali non hanno, la virtù e quindi il pudor, inteso come senso della vergogna, la temperanza, la modestia, il senso di giustizia, l’onestà, ma soprattutto, come sottolinea con forza Quintiliano, la dicendi facultas: “E, per Ercole, quel dio che sta a capo di tutto, che è padre di ogni cosa e artefice del mondo, in nulla ha distinto l’uomo dagli altri esseri viventi che sono soggetti alla morte più che nella capacità di parlare”.  Gli animali, dunque, in contrapposizione all’uomo, non possono che essere i muta animalia, ovvero gli animati privi di parola, oppure i bruta ammalia, quelli dagli istinti più bestiali. Si afferma così, nel mondo latino, forse anche con forza maggiore rispetto a quanto non accada nel mondo greco, I’idea isolazionista secondo la quale l’uomo è il solo essere vivente che ha tutta una serie di dotazioni positive che fondano il suo privilegio e la sua posizione di centralità. Tale idea isolazionista, tuttavia, si trova talvolta a essere declinata in modo buffo e curioso. Solo per fare un esempio, in Plinio il Vecchio, il quale recupera, banalizzandoli e fondendoli con un impianto di marca stoica, molti spunti della biologia aristotelica, l’uomo non è soltanto l’unico animale che ha la ratio, la ragione, e la oratio, la capacità di parlare, ma è anche l’unico che ha le mammelle negli esemplari maschio, l’unico che è capace di sognare, insieme, però, con cavalli, cani e pochi altri mammiferi, l’unico che, come insegnano gli stoici, sia capace di provare emozioni. Cavalli e cani realizzano una socialità che si avvicina a quella umana. Si assiste anche all’attivazione di un meccanismo di antropomorfizzazione attraverso il legame magico tra cavaliere e cavallo. Tale relazione veniva esaltata nella Roma repubblicana e imperiale durante i trionfi. Se le venationes che si tenevano negli anfiteatri e nei circhi si basavano sul principio secondo il quale gli animali, in quanto esseri esclusi dalla comunità morale, si potevano uccidere o sacrificare, diverso era il principio che guidava le parate di bestie previste nei trionfi: i cavalli in particolare venivano associati simbolicamente alle comunità umane, dei vinti da un lato e dei vincitori dall’altro. Si dava vita ad un vero e proprio gioco di ruolo insito nei trionfi dell’antica Roma. In questa forma di rito, nel quale si metteva in scena un “noi” condiviso, si associava l’esibizione dei tratti peculiari delle “alterità” assoggettate. Dunque anche gli animali divenivano strumenti di questa logica e, nelle sfilate, da un lato venivano fatti incedere i cavalli dei vincitori mentre dall’altro si esibivano, come a condividere lo statuto di prigionieri nemici, gli animali degli sconfitti. I cavalli avevano naturalmente la posizione d’onore e rappresentavano l’élite militare che i Romani esibivano come segno della loro potenza. Trovavano posto in parata però anche asini e muli, gli altri equidi utilizzati in guerra insieme ai cavalli. Suscitò un certo clamore, ad esempio, il trionfo di Lucullo al rientro dalla terza guerra mitridatica, in occasione del quale ben centosette muli vennero adoperati per trasportare due milioni e settecentomila monete d’argento sottratte al nemico, mentre altri otto muli vennero caricati con scranni d’oro e altri cinquantasei ancora con lingotti d’argento.  Con gli equidi da guerra, c’erano comunque anche altri animali, che al termine della processione sarebbero stati sacrificati sull’altare di Giove Capitolino soprattutto ovini e bovini. Sappiamo, ad esempio, che per il trionfo di Lucio Emilio Paolo del 167 avanti Cristo vennero fatte sfilare per poi essere sacrificate, ben centoventi mucche bianche con paramenti in oro. Ai cavalli era dunque riconosciuto lo status di guerrieri e compagni leali e inseparabili degli equites, il corpo aristocratico dell’esercito romano. Ancor più che nelle guerre tardo-antiche, medievali, moderne e contemporanee, dove continuano ancora in qualche modo ad essere utilizzati, nel mondo antico i cavalli rappresentavano una risorsa bellica fondamentale e spesso cruciale per acquisire superiorità sui campi  di battaglia. Sul versante dei servizi a supporto delle attività belliche, bovini e muli in genere erano preferiti ai cavalli per il trasporto delle salmerie e di altre pesanti attrezzature. Per i collegamenti strategici tra le fortificazioni venivano utilizzati equini dolicomorfi, ovvero razze leggere, normalmente di origine orientale, per servirsi della loro velocità e agilità. Negli scontri si utilizzavano preferibilmente soggetti mesomorfi perché i dolicomorfi non sempre erano affidabili, in quanto, nonostante l’addestramento costante, tendevano a entrare nel panico nel bel mezzo delle battaglie e, fra le altre cose, le loro ossa erano molto più fragili di quelle di equidi più pesanti e quindi maggiormente soggette a frattura. Nonostante i limiti del loro impiego, comunque, erano l’arma principale delle cavallerie greche e romane, e per la loro cura era prevista, nelle file dell’esercito, la figura ad hoc del mulomedicus. I cavalli erano quindi molto ben curati e la loro carne non era consumata che in casi di emergenza. In più, oltre a ricevere un nome, e a essere amati come i cani per la loro fedeltà, erano oggetto di cure anche particolarmente costose. Nel caso di cavalli da corsa, poi, non era raro che, alla loro morte, si erigessero monumenti funebri in loro onore e fossero glorificati e quasi deificati. Esiste dunque un rapporto molto forte e stretto tra cavallo, mito e divinità.

LA STORIA

Nella Grecia dell’età micenea e in Omero, il cavallo era usato per tirare i carri da guerra, ai quali subentrò poi la cavalleria, che i greci dovettero imparare a conoscere per tempo nell’Asia Minore, specialmente i reparti a cavallo della Lidia e dell’Assira. Ma lo sviluppo della cavalleria greca non avvenne in modo uniforme. Nelle regioni in cui il terreno si prestava al suo impiego e in cui la nobiltà mantenne più a lungo la sua supremazia politica, e i due aspetti sono di solito in stretta relazione, la cavalleria fiorì. Ciò avvenne in Macedonia, Tessaglia, Beozia ed Eubea ma anche in molte città greche dell’Asia Minore, a Cirene, Cipro, Creta e in Sicilia. Invece nelle regioni montuose o a precoce sviluppo democratico, la borghese fanteria degli opliti ebbe la prevalenza e la cavalleria o fu presto soppressa o sviluppò scarsa importanza. Così, mentre in Tessaglia la proporzione fra cavalieri e fanti era di uno a due, a Sparta invece intorno al VII secolo la stessa guardia a cavallo del re fu appiedata, conservando il titolo di ἱππεῖς a ricordo della sua antica condizione e l’esercito cittadino spartano era formato di soli opliti. In Atene la cavalleria, che esisteva ancora al tempo dei Pisistratidi nel VI secolo, che ricorsero però spesso all’eccellente cavalleria dei Tessali, loro alleati, fu abolita pare da Clistene, e sia a Maratona che a Platea gli Ateniesi non contavano su cavalleria, pur continuando i cittadini della classe più elevata a chiamarsi ἱππεῖς. I cavalieri greci anteriori al V secolo ci sono noti specialmente dalle pitture vascolari nelle quali hanno spesso due cavalli, uno solo dei quali è montato e normalmente da un servo disarmato o armato alla leggera come nella cavalleria assira più antica. Insomma l’uso pare si sia conservato più a lungo nelle colonie d’Italia, dalle quali dei cavalieri ἅμιπποι venivano assoldati ancora negli eserciti ellenistici e detti Ταραντῖνοι. Quanto alla tattica di questi cavalieri è probabile che i cavalli servissero solo come mezzo di trasporto e giunti sul campo di battaglia i guerrieri armati di panoplia balzavano a terra per combattere a piedi. Al principio del V secolo avanti Cristo le esigenze militari persuasero gli ateniesi a ricostituire la loro cavalleria e fu organizzato, pare fra il 478 e il 472, un corpo di trecento cavalieri cittadini, portato poco dopo a mille, al quale furono aggiunti duecento arcieri cittadini a cavallo. Si ebbero quindi milleduecento cavalli accanto a tredicimila opliti con un rapporto di uno a dieci. Questa cavalleria formò in seguito l’orgoglio di Atene e la si può osservare, nel fregio realizzato da Fidia per decorare la cella del Partenone, mentre sfila nella Παναθήναια, la processione delle Panatenee, la più importante festa religiosa dell’antica Atene che si teneva in onore della divinità protettrice della città. I cavalieri provenivano dalle famiglie più ricche, avevano sentimenti aristocratici e tendenzialmente contrari al governo democratico ed erano tenuti a mantenere i cavalli da guerra. Il ruolo dei mille cavalieri attici doveva esser tenuto sempre al completo anche in tempo di pace e, in frequenti rassegne, si controllavano l’istruzione e l’attitudine dei militi e lo stato dei cavalli. I cavalieri ateniesi erano armati di solito di due giavellotti, uno da lanciare e uno da tenere come lancia; a volte portavano anche una spada corta ma non tenevano ordinariamente uno scudo. Sulle pitture vascolari portano di solito una clamide e un petaso o altro copricapo, ma sappiamo che portavano anche corazza pesante e manopole, stivali di cuoio e alle volte schinieri. Anche il cavallo era protetto da frontali e pettorali ma non usavano né sella né staffe, soltanto una coperta sulla schiena del cavallo. Sparta, solo nel 424 avanti Cristo, creò un corpo di cavalleria e di arcieri di circa quattrocento uomini, portati nel 394 a seicento, per la necessità di difesa delle coste contro eventuali sbarchi nemici. Ma si trattava di una mediocre cavalleria anche perché i cavalli venivano assegnati agli uomini più deboli, i quali ricevevano un basso grado di addestramento. Miglior cavalleria ebbero gli spartani quando cominciarono a formarla con mercenari. Di molto superiore alle cavallerie ateniese e spartana erano le cavallerie della Beozia e della Tessaglia reclutate fra le nobiltà delle due regioni. Una particolarità della cavalleria beotica, che si era distinta a Platea, è che essa combatteva insieme con la fanteria leggera degli ἅμιπποι: ogni cavaliere ne portava uno in groppa come passeggero. La cavalleria costituiva il nerbo dell’esercito della lega tessalica e la sua forza nominale era nel IV secolo computata a seimila cavalli, cifra che non veniva in pratica mai raggiunta. Tuttavia i corpi di mille, millecinquecento e duemila cavalieri tessali che incontriamo nei racconti degli storici rappresentano le maggiori masse di cavalleria che gli stati greci abbiano potuto mettere in campo prima dell’età ellenistica. Al tempo di Giasone di Fere, nel IV secolo, la cavalleria tessalica era armata di robusta asta e di spada e dotata di armi difensive quali un elmo di metallo con para naso e para guance, corazza metallica e alti sandali. Numerosa fu anche la cavalleria che armarono i greci delle colonie d’Occidente, specialmente Siracusa, ove i ricchi proprietarî terrieri avevano il dovere di sostenere economicamente i cavalieri. Gelone ebbe a disposizione ben duemila cavalli, Dionisio il vecchio fino a tremila. Nella prima battaglia contro gli ateniesi, i siracusani avevano millecinquecento cavalli. La cavalleria greca dell’età classica ebbe dunque valore assai ineguale ma anche le migliori cavallerie elleniche non potevano offrire un grande rendimento. Poiché l’uso dell’arco non si generalizzò mai in Grecia, la tattica della cavalleria sarebbe dovuta culminare nell’urto di massa; viceversa l’accennata mancanza di staffe e di sella costringeva il cavaliere ad adoperare per l’urto con l’asta la sola forza del braccio. Il lanciere medievale e moderno, ben saldo in sella, teneva invece col braccio la lancia stretta al fianco e vi imprimeva tutta la forza del proprio corpo e del cavallo. Perciò molti antichi, come Senofonte, erano contrari alla grande lancia da urto e preferivano le due lance leggiere che si potevano lanciare o usare per la lotta corpo a corpo. A questi inconvenienti i greci dell’età classica non rimediarono, come altri popoli antichi, con un allenamento più intenso, individuale e collettivo, dell’uomo e del cavallo, e preferirono invece la lotta irregolare e individuale mantenendo l’opinione dominante che la cavalleria non potesse sfondare un ordine compatto di opliti. Dunque la funzione dei cavalieri si limitava al servizio di esplorazione e di sicurezza, alla lotta contro la cavalleria avversaria e a proteggere ritirate inseguendo la fanteria nemica con una successione di piccoli attacchi con lancio di giavellotti. Epaminonda affidò alla cavalleria beotica la protezione del fianco dell’ala difensiva indebolita per rafforzare l’ala offensiva, e quindi durante l’egemonia tebana la cavalleria divenne un elemento importante in una concezione tattica organica. Ma spettava ai Macedoni, e specialmente a Filippo, educato alla scuola di Epaminonda, ed al figlio Alessandro aprire nuovi orizzonti all’impiego della cavalleria e farne l’arma regina della battaglia. Mentre i contadini macedoni furono organizzati da Filippo nella falange, l’aristocrazia macedone formava la guardia a cavallo e le sette ἴλαι della cavalleria pesante, i cui componenti portavano il titolo di ἑταῖροι, compagni del re. Si aveva poi la cavalleria leggera dei σαρισσοϕόροι, in buona parte macedoni, dei traci e dei peoni, alla quale era affidato di solito il servizio di avanscoperta e che perciò erano detti πρόδρομοι. La Tessaglia forniva poi al re macedone un contingente di milleottocento cavalieri. L’esercito di Alessandro contava inoltre seicento cavalieri alleati greci. Nel complesso l’esercito che iniziò la conquista dell’Asia contava un po’ più di trentamila opliti e di cinquemila cavalieri. La cavalleria perciò stava alla fanteria per uno a sei circa, proporzione molto più alta che nell’epoca precedente. Il reparto era diviso in cavalleria pesante d’urto e in leggera per l’esplorazione e per la lotta in ordine sparso. Come armamento la cavalleria macedone non presentava novità notevoli, quella pesante combatteva essenzialmente con l’asta da urto manovrata sempre con la sola forza del braccio e secondariamente con la spada. Ma superava comunque la cavalleria greca dell’età precedente per l’eccellenza dell’organizzazione e dell’addestramento. La cavalleria non era più un elemento secondario, fiancheggiante, sia pure in stretto collegamento, l’azione della fanteria, come ancora nell’esercito di Epaminonda, ma divenne essenziale e spesso preminente. Ciò è molto bene espresso dal fatto che il re in persona, date le disposizioni generali per la battaglia, carica alla testa della cavalleria degli ἑταῖροι dell’ala offensiva, che a Granico, ad Isso ed a Gaugamela è l’ala destra. Questa cavalleria agiva in formazioni serrate e a scaglioni ed era decisiva grazie alla violenza dell’urto, protetta sul suo fianco esterno da reparti di cavalleria e fanteria leggera. La carica era diretta contro un punto essenziale della linea avversaria per romperla e attaccarne quindi i monconi di fianco e alle spalle, mentre la falange premeva di fronte. La cavalleria tessalica, con parte delle truppe leggere, stava invece di solito all’ala sinistra, l’ala difensiva, con la mansione di proteggere il fianco sinistro della falange e di trattenere con azione temporeggiante il nemico. Nelle campagne iraniche di Alessandro aumentò enormemente l’importanza della cavalleria leggera, che fu molto accresciuta con elementi orientali. Notevole fu la battaglia sull’Idaspe, che nella prima fase venne sostenuta da Alessandro con la sola cavalleria, fatto impensabile per la generazione precedente. Nella composizione degli eserciti dell’età ellenistica la cavalleria divenne pertanto l’arma regina ed ebbe in genere l’importanza che aveva ereditato da Alessandro, e in alcuni casi anche maggiore. Contingenti più modesti ma più omogenei di cavalleria avevano in genere gli eserciti europei dei re di Macedonia, mentre molto più forti e composti di elementi diversi gli eserciti formati nell’Asia, area geografica che offriva molte etnie con antiche tradizioni cavalleresche. Quanto all’armamento, la cavalleria di linea dell’età ellenistica risultava più protetta grazie a corazze pesanti e un piccolo scudo in legno rivestito di metallo per i cavalieri e l’introduzione dell’uso di corazzare anche i cavalli. L’arma offensiva principale era la lancia da urto, in uso anche presso alcune cavallerie semi leggere e leggere, che dovevano esser quindi simili ai moderni cosacchi. Frequenti erano i corpi di arcieri a cavallo mentre la profondità della cavalleria schierata in battaglia era normalmente di otto cavalli. Il Mosaico della Battaglia di Isso, ritrovato durante gli scavi archeologici a Pompei il 24 ottobre 1831 nella Casa del Fauno, ornava il pavimento di un’esedra ed oggi è collocato presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Il mosaico, che misura circa tre metri per cinque, è una riproduzione romana del I secolo avanti Cristo di un famoso dipinto di Filosseno di Eretria realizzato alla fine del IV secolo avanti Cristo ed è stato realizzato in opus vermiculatum, una tecnica che prevede l’uso di tessere molto piccole, in grado di adattarsi meglio al disegno di fondo. L’impiego della cavalleria in quella decisiva battaglia accadde secondo la strategia fissata da Alessandro Magno per sconfiggere le truppe del gran re Dario III in una condizione nella quale non si era più legati all’antico schema dove l’ala offensiva era la destra e si era di fronte allo scontro fra le due masse principali avversarie di cavalleria. Se il grosso della cavalleria di una delle due parti annientava il grosso dell’altra, la cavalleria vincitrice attaccava allora sul fianco o alle spalle la fanteria nemica; se la cavalleria nemica era respinta, ma non annientata, la cavalleria vincitrice doveva inseguirla e spesso si allontanava dal campo di battaglia perdendo il contatto con il resto dell’esercito. Alla cavalleria leggera spettava in genere la protezione del fianco della cavalleria attaccante e la difesa elastica all’ala difensiva. Grande importanza nella storia militare dell’antichità ebbe la cavalleria cartaginese, specialmente con Annibale. Poiché gli eserciti cartaginesi dal principio del V secolo vennero sempre più largamente formati con mercenarî di svariata provenienza, la cavalleria cartaginese risultava di elementi diversi per nazionalità, per armamento e tattica. I numidi, longe primum equitum in Africa est genus , ne formavano il grosso e montavano piccoli e resistenti cavalli indigeni di razza berbera, erano agilissimi ed armati di un piccolo scudo di cuoio e di giavellotto. I numidi caricavano al galoppo il nemico gridando e scagliando le loro armi e ripetevano l’attacco se al primo impeto non riuscivano a sfondare. Grande era la loro abilità nelle scorrerie e nelle esplorazioni, erano terribili nell’inseguimento di una truppa battuta. Dopo la conquista della penisola iberica, l’esercito cartaginese ebbe anche importanti contingenti di cavalleria spagnola, composti di mercenari e di sudditi. Cavalieri mercenari i cartaginesi reclutarono i propri combattenti anche fra i galli, i campani d’Italia e altre popolazioni. Nelle guerre contro i romani, la cavalleria di Cartagine fu sempre superiore in qualità e quantità: contro Regolo, in Africa, schierò sedicimila fanti e duemila cavalli, Annibale undicimila cavalli alla Trebbia e diecimila a Canne contro circa cinquemila di Roma. Un rapporto inverso invece si ebbe a Zama, ove i numidi erano dalla parte di Scipione, e avevano inoltre migliorato l’armamento dei reparti a cavallo, facendone una cavalleria di linea. Nelle guerre puniche, la cavalleria, schierata alle ali, aveva per obiettivo di spazzar via la milizia a cavallo avversaria e avviluppare quindi la fanteria nemica esempio. Ne fu un caso classico proprio la battaglia di Canne. Popolo eminentemente legato all’equitazione marziale nell’occidente europeo furono i galli. La nobiltà gallica combatteva volentieri anche a piedi ma aveva grande passione per gli equidi. L’armamento consisteva nella spada gallica a due tagli, lunga e senza punta; frequente era lo scudo mentre rari erano elmo e corazza. I galli vestivano di solito solo le loro larghe brache e il mantello, quando non preferivano combattere a torso nudo. La tattica della cavalleria consisteva in una carica impetuosa accompagnata da grida feroci e dal suono degli strumenti guerreschi. Molti popoli piegarono atterriti dinanzi alla furia delle cariche a cavallo dei galli, ma greci e romani, riavutisi presto dai terrori dei primi incontri, ne ebbero facilmente ragione per la generale superiorità tattica e del loro armamento. La cavalleria gallica fu però largamente assoldata dai re ellenistici e più tardi, specie dopo l’età di Cesare, la Gallia diede numerosi squadroni agli eserciti romani. Anche presso le popolazioni dell’Italia antica ai cocchi si aggiunse e poi subentrò completamente la cavalleria. Di notizie sulla storia dell’arma ne abbiamo solo per Roma; i monumenti ci dànno però un’idea abbastanza chiara dell’armamento e del modo di combattere degli altri cavalieri italici, specialmente degli Etruschi e delle popolazioni sabelliche dell’Italia meridionale, la cui cavalleria era celebrata anche dalle fonti letterarie, in special modo quella sannita e quella campana. I cavalieri dell’Italia meridionale portano elmo, spesso con cresta e penne o corna, corazza e alle volte anche un grande scudo, ed erano armati di una o due lance. L’esercito romano dell’epoca regia era schematicamente composto di tre centurie di cavalieri, detti celeres, e di tre migliaia di fanti. Il rapporto fra cavalleria e fanteria era quindi di regola da uno a dieci, proporzione che si mantenne quando l’esercito fu raddoppiato, ancora al tempo dei re, e portato a sei centurie di cavalieri e a seimila di fanti; ma l’unità militare della centuria equestre fu presto disciolta e la cavalleria fu riformata in turmae di trenta cavalieri. Le evidenze archeologiche confermano che i cavalieri romani seguirono la generale tendenza di tutti i popoli d’Italia nell’adottare l’armamento greco. Conservarono però curiosamente l’ascia e imbracciarono lo scudo rotondo di bronzo. È attestato anche per Roma l’uso dei due cavalli, pares equi, uno per il guerriero e l’altro per lo scudiero e forse grazie agli scudieri degli equites si formò a un certo momento quella cavalleria leggera dei ferentarii, armati di iacula, ovvero di giavellotti, ricordati dalle fonti, ma scomparsi dall’esercito romano almeno prima dell’età di Polibio, alla fine del III secolo dopo Cristo. Già in epoca remota, probabilmente dal tempo dell’introduzione dell’ordinamento repubblicano, la cavalleria romana divenne permanente con lo stato che ne assicurava il reclutamento corrispondendo a un numero fisso di cittadini un’indennità per l’acquisto di uno o due cavalli, aes equestre, e per il foraggio, aes hordiarium. Vennero riconosciute cioè le speciali esigenze di addestramento e di allenamento che il servizio a cavallo richiedeva. La scelta dei cavalieri era fatta dai magistrati supremi, re e consoli, nel tempo più antico, e dai censori dopo l’istituzione di questa carica. A tali cariche spettava la rassegna periodica della cavalleria per accertarsi delle attitudini militari dei cavalieri e del mantenimento delle cavalcature e delle armi. Lo stato si riservò tuttavia il diritto, almeno da una certa epoca, d’imporre il servizio a cavallo anche a coloro che, pur non godendo l’assegno equestre, possedevano però un determinato patrimonio che li mettesse in grado di provvedersi con mezzi propri di cavalli da guerra. Si fissò così il cosiddetto censo equestre e a questi cavalieri si ricorreva quando non erano sufficienti gli equites equo publico. Nell’epoca classica, la cavalleria romana venne attribuita alle legioni, anche se ciò non escludeva però che sul campo di battaglia essa venisse riunita in una o due masse sulle ali, sempre secondo la proporzione tradizionale di uno a dieci, cioè trecento cavalieri per tremila fanti di linea. L’armamento dei cavalieri, pesante nell’epoca regia, s’era venuto prima alleggerendo, e Polibio informava che la cavalleria romana più antica non portava corazza ma un cinturone, due aste leggiere e senza σαυρωτήρ, la punta al calcio della lancia, che servivano poco e si spezzavano facilmente, uno scudo leggero ovale e concavo di pelle di bue che si guastava con la pioggia e non assicurava una sufficiente protezione. Perciò la cavalleria romana di età ellenistica aveva adottato un armamento regolamentare di tipo greco consistente nell’elmo, il cassis, normalmente di tipo italico, corazza corta con gonnellino di cuoio solo e una cotta di maglia metallica o a squame, lorica, o di maglia e squame combinate in varia forma, e scudo leggiero ovale di legno, cuoio e metallo, lo scutum equestre. Le armi offensive erano una sola lancia e la spada che fu poi la cosidetta iberica, portata a sinistra. I cavalieri ricevevano triplo soldo del fante, cioè un denaro al giorno, e tripla razione, ed erano dispensati dai lavori dell’accampamento, nel quale avevano invece per turno l’ispezione ai posti di guardia. Ma la cavalleria cittadina romana cominciò a decadere come arma combattente già in epoca repubblicana. Molti degli equites prestavano servizio come magistrati o come ufficiali superiori e gli altri provavano una crescente riluttanza a servire nella truppa degli squadroni. Gli equites si trasformarono così in una classe che, quando prestava servizio, esigeva di farlo nel grado di ufficiale. Il governo consolare romano non tentò di rimediare a questa trasformazione della cavalleria cittadina, la quale aveva radici profonde d’ordine politico e sociale e provvide alla cavalleria degli eserciti ricorrendo sempre più largamente agli alleati e agli ausiliari stranieri. Gli auxilia a cavallo erano formati di numidi, che ebbero gran parte nella vittoria di Zama e più tardi nella guerra numantina, e vi si aggiunsero poi cavalieri spagnoli e, dopo Cesare, anche galli e germani. Formati per nazionalità e spesso comandati direttamente dai loro capi indigeni, conservavano di solito l’armamento nazionale anche se alcuni corpi vennero anche equipaggiati e disciplinati alla romana e organizzati in alae e turmae. L’ultimo tentativo di far rinascere la cavalleria cittadina fu fatto da Pompeo nella guerra contro Cesare ma è ricordato più che altro per l’indegna prova offerta nella guerra civile a Farsalo. Gli auxilia ne presero da allora in poi stabilmente e per intero il posto e non vi fu più alcuna cavalleria legionaria. La cavalleria romana repubblicana fu in complesso una mediocre cavalleria. In battaglia ebbe sempre una parte secondaria e le vittorie di Roma furono infatti essenzialmente di fanteria dove era il nerbo dell’esercito. Secondo lo schema abituale, la cavalleria si schierava alle due ali dell’esercito, la cittadina a destra, l’alleata a sinistra, con lo scopo di spazzar via la cavalleria e attaccare quindi ai fianchi o alle spalle della fanteria nemica. Se le forze non le permettevano di raggiungere questo risultato, i cavalieri romani cercavano d’impegnare la cavalleria avversaria, trascinandola lontano dal campo di battaglia. L’attacco avveniva o in ordine chiuso, confertis equis, o in ordine rado, senza intervallo fra gli squadroni, confertis turmis, o con gli squadroni distanziati, distractis turmis. Per la carica si toglievano alle volte i morsi ai cavalli, effrenatis equis. L’attacco si risolveva in una lotta corpo a corpo, stantibus equis, o più spesso in un combattimento a stormi, con alternative di attacchi e di ritirate, more equestris proelii sumptis tergis atque redditis.  Sovente la cavalleria veniva appiedata una volta raggiunto il fronte per combattere a terra. Con lo sparire della cavalleria italica uniformemente armata e istruita, i reparti a cavallo degli eserciti romani, divennero auxilia con armamento e tattica nazionale, e quindi assai diversi da un contingente all’altro, non viene di regola usata più in massa sul campo di battaglia, ove la superiorità della fanteria era universalmente riconosciuta. Gli scopi della cavalleria diventarono quelli di molestare il nemico in marcia, rendergli difficile l’approvvigionamento, costringerlo a fermarsi e ad accettare battaglia e infine inseguirlo dopo la battaglia. In seguito alla riorganizzazione dell’esercito fatta da Augusto, la legione romana tornò ad avere un esiguo reparto di cavalleria sebbene il grosso della cavalleria dell’esercito imperiale continuò ad essere costituito dalle alae ausiliarie, quinquagenariae , formate da cinquecento cavalieri, e milliariae , costituite da mille cavalieri, reclutate nelle provincie. Le alae potevano essere aggregate alle varie legioni e acquartierate nei loro campi. Inoltre un certo numero di coorti ausiliarie di fanteria, dette equitatae, comprendevano normalmente un contingente di cavalleria. Anche la guardia imperiale dei pretoriani aveva la sua cavalleria, pare una turma per ognuna delle sei centurie di una coorte pretoria, e anche i Batavi erano valenti cavalieri germanici del delta del Reno nonché custodes corporis, guardia del corpo germanica degl’imperatori della casa Giulia, disciolta da Galba e sostituita poi all’epoca dei Flavî o di Adriano dallo squadrone degli equites singulares, guardie del corpo imperiali reclutate in genere fra gli abitanti delle provincie settentrionali e poi anche tra gli ottimati cittadini fino all’epoca di Costantino. Con l’imperatore Gallieno nel terzo secolo dopo Cristo, la cavalleria fu aumentata nelle quantità e le legioni furono private dei loro contingenti a cavallo, i quali vennero riuniti in grossi corpi, in modo che la cavalleria potesse essere adoperata a masse e come elemento tattico di prima importanza sul campo di battaglia. Pochi anni dopo, però, Diocleziano rese i reparti di cavalleria almeno a un certo numero di legioni: la legione dioclezianea di Vegezio contava più di seimila fanti e oltre settecento cavalieri. Da Costantino la forza armata dell’impero fu divisa in due categorie: l’esercito di campagna o di manovra e l’esercito presidiario ai confini. La cavalleria di quest’ultimo mantenne in genere la formazione tradizionale in ali, quella dell’esercito di campagna, molto accresciuta, fu invece formata in vexillationes di cinquecento cavalli. La cavalleria venne messa agli ordini ordini d’un ispettore generale chiamato magister equitum praesentalis. L’aumento quantitativo della cavalleria fu uno dei fatti caratteristici dell’evoluzione degli ordinamenti romani del basso impero come conseguenza della necessità di fronteggiare gli eserciti di cavalleria delle popolazioni dell’Asia e dell’Europa nord-orientale. Lla fanteria, qualitativamente assai scaduta, perse la tradizionale supremazia finì quasi con lo sparire dall’esercito bizantino, nel quale il vero guerriero era il soldato a cavallo, che combatteva, se le circostanze lo richiedevano, anche a piedi. Durante il basso impero e la prima epoca bizantina si ebbe un’evoluzione importante quanto alla corazza dei cavalieri e, oltre alle tipiche protezioni di cuoio, venne inserito nella cavalleria di linea di molti corpi una ampia corazza di metallo su cavaliere e cavalli, donde il nome di cataphracti, cataphractarii o clibanarii portato da molti reparti. Parti metalliche proteggevano le braccia e le gambe e l’armatura doveva risultare simile a quella dei cavalieri medievali. Sul campo di battaglia la cavalleria iniziò ad acquisire il predominio per l’accrescimento della sua massa e per la decadenza della fanteria. La sua azione diventava decisiva nel bene o nel male. L’attacco della cavalleria gotica fece vincere ai barbari la battaglia di Adrianopoli nel 378 e la battaglia di Tricamaron contro i Vandali in Africa fu una battaglia di cavalleria. Cominciò così il dominio bellico della cavalleria. Se nell’impero bizantino la necessità di fronteggiare gli invasori dall’Asia, provetti cavalieri, conduceva a una sempre maggiore prevalenza della cavalleria sulla fanteria, presso i germani l’assoluta superiorità della cavalleria dipendeva in gran parte dall’incapacità di costituire corpi tattici fortemente inquadrati e ben disciplinati, che soltanto avrebbero potuto dar valore all’uomo combattente a piedi. Mancando simili ordinamenti, e divenendo fattore determinante del successo il valore personale, guerriero degno di considerazione era solo quello che, grazie al suo cavallo, possedeva un’evidente superiorità personale sull’uomo costretto a combattere a piedi. I germani furono così essenzialmente cavalieri e celebrati come tali furono, sin dall’inizio del IV secolo dopo Cristo: gli Alamanni, gli Ostrogoti, i Franchi e i Vandali. Dei Vandali fatti prigionieri si servì Giustiniano che arrivò a formare ben cinque reggimenti di cavalleria da inviare in Oriente. Con la fine dell’Impero Romano d’Occidente, si erano diffusi negli eserciti dell’Europa centrale e specie dell’Italia, corpi speciali di cavalleria levantina, quali schiavoni, stradiotti e argoletti con l’incarico di esplorare e fiancheggiare le pesanti compagnie delle genti d’arme. Il diffondersi e il perfezionarsi delle armi da fuoco, da una parte e dall’altra, e non meno, il costituirsi di veri e propri corpi tattici di fanti, tra i quali stava la grande forza dei corpi armati svizzeri di cui è fulgido esempio la Guardia Svizzera Pontificia, apportarono un radicale rivolgimento nell’arte della guerra, per cui l’arma fondamentale ritornò ad essere la fanteria, riducendo di nuovo, mille anni dopo Giustiniano, la cavalleria ad arma ausiliaria.

L’ETICA

L’etica del cavallo attraverso la storia, da Aristotele a Plinio il Vecchio, da Alessandro Magno a Federico Caprilli, non può limitarsi all’esplorazione e al racconto di sistemi di allevamento, doma, addestramento e impiego, ma deve porsi l’obbiettivo di realizzare una formazione equina che non si riferisca ai cavalli intesi in modo generico, ma che ponga l’attenzione ai singoli individui rifiutando i concetti di dominanza e sottomissione, introducendo quello di relazione, scegliendo la strada della comunicazione attraverso la ricerca di un linguaggio comune condiviso, in opposizione alla costrizione e alla coercizione, rispettando ed accogliendo la libertà di espressione dell’altro, curando un approccio empatico; e soprattutto ponga sullo stesso piano i soggetti, umani ed equini, respingendo una visione antropocentrica di sottomissione e subordinazione. L’equitazione italiana non è altro che quella detta “naturale” ideata da Caprilli. Non è che il complesso di regole e tecniche che, rendendola unica, la distinguono da quella delle altre nazioni. Il drammatico paradosso è che ormai in Italia non viene più insegnata. E pensare che, da quando Caprilli la attuò, tutte le equitazioni mondiali ne hanno preso spunto per migliorarsi, ma nessuna l’ha ancora eguagliata, sia perché molte sono rimaste ancorate alle loro vecchie tradizioni equestri, sia perché non l’hanno compresa in pieno. Infatti, mentre tutti ricercano pieghi, riunioni, cessioni e flessioni, reminiscenze della vecchia scuola, Caprilli ricercava soprattutto l’insieme.  Si ha l’insieme quando il cavaliere si muove con il cavallo senza contrastarlo nei suoi movimenti naturali, cioè quando questi riesce a mettere il proprio equilibrio all’unisono con l’equilibrio variabilissimo del cavallo. Federico Caprilli permetteva assoluta libertà di collo, di testa e di reni tramite il più leggero appoggio possibile con la mano sempre a disposizione della bocca del cavallo e con un assetto lieve, solo e sempre sull’inforcatura, in special modo quando richiedeva maggior impegno al cavallo. Questa è la differenza tra l’equitazione italiana e le altre: è il cavaliere che deve entrare nell’equilibrio naturale del cavallo e non cercare, con mille artifici deleteri per il fisico e soprattutto per il morale dell’animale, di mettere esso nel proprio. La differenza sta nella libertà. La libertà permette l’espressione al cavallo e impone all’uomo di imparare a parlarci nel modo più semplice possibile standoci insieme. Solo così si riesce ad avere un compagno collaborativo, interessato solo a far del suo meglio e non un povero essere che bovinamente ci subisce e che forse ci odia o perlomeno non ci ama. Caprilli studiò un assetto che è l’unico che permette quella totale indipendenza della mano che serve per mantenere sempre e costantemente il contatto con la bocca senza impedire i movimenti della testa e del collo del cavallo e permettere al busto del cavaliere di seguire i repentini cambiamenti di equilibrio pur liberando le reni. Il metodo caprilliano si differenzia dagli altri non solo per l’inclinazione del busto e la lunghezza degli staffili, ma soprattutto per la posizione del piede e l’uso della caviglia. Mentre nelle altre scuole nazionali il cavaliere usa infatti tre cerniere, ovvero inguine, ginocchio e caviglia, in quella italiana se ne debbono usare solo due, cioè inguine e ginocchio, mentre la terza, la caviglia, deve sempre restare fissa, con il piede tutto inserito nella staffa, il tallone spinto in basso e la suola rivolta in fuori e non appoggiato solo con la punta o fino a mezza suola come prescrivono altri metodi. Soltanto così si ottiene la fermezza del ginocchio sulla sella mantenendone la libertà dell’articolazione. Questa posizione del piede, genialmente concepita da Caprilli, rende la nostra equitazione unica e superiore ad ogni altra e ne abbiamo la conferma se consideriamo il fatto che da quando questa pratica è stata abbandonata i nostri cavalieri sono stati travolti da un inarrestabile declino. La negazione di questo principio è essenzialmente dovuta all’ignoranza del nostro sistema se non addirittura alla malafede: sono molti quelli che nascondono le proprie mancanze spiegando come l’equitazione caprilliana sia vecchia e superata, senza capire che l’equitazione veramente vecchia è quella di scuola e senza saper illustrare tecnicamente chi e come avrebbe superato Caprilli. Riflettendo, con molta malinconia, sulle attuali condizioni della nostra amata arte equestre, dobbiamo osservare come l’idea caprilliana sia ancora troppo avanzata per i nostri tempi e che ci vorrà ancora molto perché i nostri cavalieri tornino ad applicare tutti i principi tecnici ed etici che fanno del sistema italiano il migliore del mondo.

LE FONTI

Senofonte, ‛Ιππαρχικός (λόγος) e Περὶ ἰππικῆς. Gli scrittori di tattica greci, in H. Köchly e W. Rüstow, Griechische Kriegsschriftsteller, parte 2ª, Lipsia 1855. Molte notizie ricaviamo poi dagli scrittori greci, specialmente da Tucidide, Senofonte, Polibio e Arriano. Non abbiamo invece scritti latini speciali sulla cavalleria e le nostre notizie derivano in genere dagli storici, specialmente da Polibio, Cesare e Livio. Preziose e copiose notizie sulla cavalleria imperiale romana e sulla sua organizzazione ci dànno le iscrizioni. Una storia della cavalleria antica non sarebbe possibile senza lo studio dei monumenti figurati.

LA BIBLIOGRAFIA

Per la diffusione del cavallo nell’Asia Anteriore, v. l’art. cavallo e E. Meyer, Geschichte des Altertums, I, 5ª ed., Stoccarda 1926, § 445 e II, i, 2ª ed., 1928, p. 44. Per la Babilonia e l’Assiria, G. Rawlinson, The five great Monarchies of the ancient World, II, Londra 1864, p. 20 seg.; G. Maspero, Histoire ancienne des peuples de l’Orient classique, III, Parigi 1899, p. 8 seg.; A. Billerbeck e F. Delitzsch, Die Palasttore Salmanassars II von Balawat, in Beiträge zur Assyriologie, VI, i, Lipsia 1908, p. 91; B. Meissner, Babylonien und Assyrien, I, Heidelberg 1920, p. 93 seg.; in Persia, E. Meyer, op. cit., III, 1901, p. 76 seg., e Encyclopaedia Britannica, 14ª ed., 1929, s. v. Persia (History). Sulla cavalleria dei popoli classici, H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst, I, 3ª ed., Berlino 1920; II, 3ª ed., ivi 1921, passim (cfr. anche Antike Kavallerie, in Klio, X [1910], p. 335); A. Martin e R. Cagnat, s. v. Equites, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiq., II, Parigi 1892, p. 752 seg.; E. Lammert, art. Ιππεῖς, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VIII, col. 1689 segg.; id., art. Reiterei, ibid. n. s., I, col. 519 segg.; B. Kübler, art. Equites Romani, ibid., VI, col. 272 segg.; J. Kromayer e G. Veith, Heerwesen und Kriegführung der Griechen und Römer, in I. Müller e W. Otto, Handbuch der Altertumswiss., IV, 5, 2 (l’epoca imperiale è trattata da E. Nischer), Monaco 1928, passim (cfr. degli stessi autori anche l’opera Die Antike Schlachtfelder, I-IV, Berlino 1903-1926, e Schlachten-Atlas zur antiken Kriegsgeschichte, Lipsia 1922 segg., con molte notizie e discussioni sulla cavalleria antica); W. Rüstow e H. Köchly, Geschichte des Griechischen Kriegswesens von der ältesten Zeit bis auf Pyrrhos, Aarau 1852, passim. I manuali di antichità greche e romane dànno trattazioni sulle istituzioni militari e quindi anche sulla cavalleria; v. specialmente: H. Droysen, Die griechischen Kriegsalterthümer, passim, nel vol. II, parte 2ª della ed. del Lehrbuch der griech. Antiquitäten di C. F. Hermann curata da H. Blümner e W. Dittemberg, Friburgo in B. 1888; J. Marquardt e A. Domaszewski, in Mommsen e Marquardt, Handbuch der Röm. Altertümer, V, 2ª ed., Lipsia 1884, trad. franc. Manuel des antiquités romaines, XI: De l’organisation militaire chez les Romains, Parigi 1891. Sull’armamento della cavalleria romana vedi specialmente P. Couissin, Les armes romaines, Parigi 1926. Le varie fasi dell’evoluzione della cavalleria antica sono accennate anche nelle grandi storie di E. Meyer (tutta l’antichità fino al sec. IV), G. Beloch (Grecia), G. De Sanctis (Roma) e di altri. Della vasta letteratura speciale, che si troverà indicata specialmente nell’opera di Kromayer e Veith, basterà citare: W. Helbig, Les ἱππεῖς athéniens, in Mémoires de l’Académie des inscriptions et belles-lettres, XXXVII (1902); Zur Gesch. des römischen equitatus. A. Die Equites als berittene Hopliten, in Abhandl. d. Bayer. Akad. d. Wissensch. I Kl., XXIII, 2, Monaco 1905; sulla cavalleria di Alessandro, H. Berve, Das Alexanderreich auf prosopographischer Grundlage, Monaco 1926, I, p. 103 seg.; E. Meyer, Das Römische Manipularheer, in Kleine Schriften, II, Halle 1924, p. 195 esg.; R. Grosse, Römische Militargeschichte von Gallienus bis zum Beginn der byzantinischen Themenverfassung, Berlino 1920; E. Nischer, The army reforms of Diocletian and Costantine, in The Journal of Roman Studies, XIII (1923), p. 1 seg. Sulla cavalleria cartaginese, S. Gsell, Histoire ancienne de l’Afrique du nord, II, Parigi 1918, p. 331 seg.; sull’iberica, A. Schulten, Numantia, I, Monaco 1914, p. 200 seg., e in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VIII, col. 2015; sulla gallica, C. Jullian, Histoire de la Gaule, I, 2ª ed., Parigi 1909, p. 348 seg.; sulla germanica, Delbrück, op. cit., II, p. 432; Cfr. soprattutto G. Kölher, Die Entwickelung des Kriegswesens und der Kriegsführung in der Ritterzeit von Mitte des 11. Jahrh. bis zu den Hussitenkriegen, voll. 5, Breslavia 1886-93; H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst, 2ª ed., Berlino 1923 (quivi altre indicazioni bibl.).

 

Autore

Andrea Claudio Galluzzo

 

parte guelfa definitivo per sfondi bianchi