Quanto successo alla COP30 è un terremoto geopolitico. Ora dobbiamo capire come ricostruire un sistema rotto, come il clima. La conferenza sul clima di Belém si è conclusa con uno sfogo da parte di chi non accetta più freni alla transizione. Per questo il sistema delle COP deve prendere il meglio e adattarlo a un contesto geopolitico completamente diverso da quello del secolo scorso. “Non possiamo dire che sosteniamo questo testo perché non contiene il livello minimo di ambizione che ci attendavamo sull’abbandono dei combustibili fossili e sulla lotta contro la deforestazione, ma non ci opporremo perché non vogliamo far pagare il prezzo ai paesi più poveri”, è stata questa la dichiarazione rilasciata dalla ministra francese della Transizione ecologica Monique Barbut alla fine dell’incontro avuto con il resto delle delegazioni europee. Dichiarazioni forti persino per l’Europa e che hanno anticipato il dramma che si è consumato durante la plenaria finale della Cop30 di Belém, la trentesima conferenza sul clima delle Nazioni Unite.

L’accordo raggiunto approvato dall’intera comunità internazionale per consensus – una sorta di unanimità che prevede che nessuno si opponga al documento finale prima che il presidente batta il martelletto – è considerato debolissimo da molti paesi e organizzazioni. Ed è stato platealmente contestato da alcuni paesi che hanno preso più volte parola pur di esprimere la loro rabbia nei confronti delle modalità usate dalla presidenza brasiliana della Cop30 per approvare il testo finale, il Global Mutirão. Il diplomatico brasiliano André Corrêa do Lago ha infatti approvato i punti più controversi del testo – come quello che avrebbe dovuto contenere il riferimento a uno stop alla deforestazione e una roadmap per dare concretezza al concetto già approvato nel 2023 di “transitioning away from fossil fuels”, ma poi rimossi come concessione fatta ai paesi arabi e produttori di petrolio che non si sono mossi di un millimetro nella loro strenua difesa dell’industria fossile. Alcune delegazioni, infatti, avevano alzato il tipico cavaliere con inciso il nome dello stato in segno di disapprovazione prima che Corrêa do Lago battesse il martelletto. La presidenza ha risposto alle critiche sostenendo di non aver visto, ma questo non ha placato il disappunto: “Come molti di voi, non ho dormito e probabilmente questo non ha aiutato, così come la mia età avanzata”. Una forma di amara autoironia. Capofila della protesta contro Corrêa do Lago è stata la Colombia, che aveva precedentemente annunciato l’intenzione di organizzare, insieme ai Paesi Bassi, un vertice extra, con decine di paesi tra i più ambiziosi e vogliosi di portare avanti un phase out, un’uscita dai combustibili fossili. Sarà il First international conference on fossil fuel phaseout e si terrà a Santa Marta, in aprile. La Colombia ha preso più volte parola per notificare in modo fermo e deciso la propria contrarietà alla modalità di conduzione della plenaria e all’assenza dei punti sopracitati, da loro considerati imprescindibili. Insieme alla delegazione colombiana, hanno espresso considerazioni analoghe anche Panama e Uruguay.

Quanto accaduto nel pomeriggio del 22 novembre è l’ennesima miccia accesa su una dinamite per troppo tempo implosa all’interno dei negoziati, ma che ora potrebbe esplodere nella riforma, da tempo attesa, di un sistema – quello delle conferenze sul clima – che è ormai rotto. Nei fatti, i paesi che hanno contestato le procedure in plenaria avevano un altro scopo, decisamente con un orizzonte temporale più lungo: porre fine ai veti da parte dei petrostati, come quello prevedibile dell’Arabia Saudita, e sbloccare quello che in apparenza sembrava l’auspicio di questa Cop, ovvero trasformare in azioni la transizione dai combustibili fossili messa nero su bianco due anni fa, sotto la presidenza degli Emirati Arabi Uniti. Questa forma di protesta legata alle procedure è stata condotta altre volte in passato, senza mai cambiare le sorti dei negoziati né tantomeno portato a dietrofront, specie se arrivate dopo il battito del martelletto. Le posizioni espresse dai rappresentanti delle delegazioni restano quindi parte del cerimoniale, come riportato da diversi esperti consultati da Wired, nonostante negli ultimi anni – e in particolare qui a Belém – abbiano assunto forme incontrollabili di insofferenza verso questo modo di guidare il processo.

“Questo documento non è l’ambizione che si era data l’Unione europea che ha sempre funto da traino, ma il quadro politico a livello mondiale è cambiato molto e bisogna prenderne atto”, ha dichiarato persino il nostro ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin, da sempre attento a non sbilanciarsi troppo. E infatti ha aggiunto che a noi europei spetta il compito “di portare avanti in modo serio ed equilibrato la questione”. La Cop30 di Belém verrà ricordata per aver deluso quasi tutti. Perché l’aspettativa verso una guida che potesse essere davvero illuminata, in un paese direttamente coinvolto in ogni ambito della discussione, dalle foreste alla giustizia sociale, in un anno che ha certificato il fallimento dell’obiettivo degli 1,5 gradi Celsius di aumento della temperatura media globale, era troppo alta. E invece bastava ricordarsi che questa era “semplicemente” la Cop dell’implementazione, della messa a terra di quanto già deciso negli anni. E infatti viene confermata la volontà di triplicare i finanziamenti per l’adattamento da parte dei paesi del nord del mondo verso i paesi più vulnerabili alle conseguenze della crisi climatica, circa 120 miliardi dei famosi 300 miliardi su cui si è tanto discusso l’anno scorso a Baku andranno a progetti di adattamento a un clima che è già cambiato. Una crescita “lenta” come ricordato dall’Italian climate network, l’associazione italiana che da anni segue i negoziati sul campo, che vede passi avanti nella “giusta transizione” in campo sociale. Dello stesso avviso anche il Climate action network che definisce – attraverso le parole di Anabella Rosemberg – il meccanismo per la transizione giusta come “l’impianto più avanzato in termini di diritti che abbiamo mai visto in una decisione di una Cop”. Risultati raggiunti in decenni di negoziati, ma che diventano consolazioni se si ripensa alla delusione incassata su tutto il resto. Perché le emissioni continuano a crescere e la temperatura pure. Mentre la quantità di carbone, petrolio e gas bruciati rimane, nella migliore delle ipotesi, invariata. Quello che è successo alla Cop30 può essere quindi definito un terremoto geopolitico che ha creato molte macerie e messo in discussione alleanze storiche finora basate su interessi economici invecchiati male. Ora è il momento di ringraziare le COP per quanto fatto fin qui e rimboccarci le maniche per ricostruire un sistema rotto, come il clima. Solo così potremo superare la delusione di Belém ed evitare di viverne altre.

 

Autore

Gianluca Anguzza