Leone XIV ha ribadito che la cura della casa comune delineata da Francesco nella Laudato si’ è impegno inderogabile: le scelte dei Grandi in materia pesano infatti sulla vita dei più piccoli. Ma perché la Chiesa parla ancora di temi come la deforestazione, l’inquinamento, la biodiversità minacciata, il cambiamento climatico? Che hanno a che fare queste emergenze planetarie con la Messa, le liturgie, le preghiere, la pastorale, le devozioni, la carità e tutti quegli atti che da secoli qualificano la vita delle comunità cristiane? Insomma, va bene che i credenti in Cristo si prendano cura dei poveri, dei sofferenti e si ritrovino per celebrare i loro riti religiosi, ma si fa ancora fatica a capire perché essi si preoccupino di tutela dell’ambiente, risorse minerarie, fonti d’acqua, distribuzione delle materie prime.

Dieci anni fa, quando papa Francesco pubblicò la sua enciclica sulla cura della casa comune, la Laudato si’, si colse subito la portata profetica della sua scelta ma, nonostante l’enorme coinvolgimento soprattutto tra i giovani su questo fronte, nel tempo abbiamo ceduto alla tentazione di considerarlo quasi un “personale pallino” del Pontefice. Dobbiamo ammettere che gran parte del sentire comune ha legato questa attenzione alla sensibilità propria del Papa argentino, ignorando i movimenti, le associazioni e le iniziative sul territorio nate proprio sulla spinta del documento del 24 maggio 2015. In questi giorni, però, papa Leone XIV ci ha fatto ben comprendere che non è così e che questo impegno non solo non è più derogabile, rinviabile o depennabile dalle agende della politica internazionale, ma è di fatto parte costitutiva del patrimonio comune della Chiesa cattolica e del suo agire nella storia. Lo ha spiegato in maniera chiara nel messaggio inviato il 30 giugno alla Fao e lo ha sancito in modo chiaro e netto ieri nella riflessione scritta in vista della decima Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato: salvaguardare l’ambiente, afferma Prevost senza e senza ma, è «questione di fede».

È un punto fermo, un messaggio “ad intra” ma anche “ad extra”: ai cattolici ricorda il fondamento teologico del loro agire a favore della salvaguardia dell’ambiente (riprendendo chiaramente il concetto di ecologia integrale della Laudato si’), davanti al mondo intero chiarisce che la Chiesa non farà mai un passo indietro su questo tema. E non può fare diversamente perché da secoli ha imparato ad ascoltare la voce di quel Creato che l’umanità è chiamata a «coltivare e custodire».

Lo ha fatto proprio stando alla scuola della liturgia, leggendo e meditando, durante la Veglia pasquale della notte del Sabato Santo, il racconto della creazione riportato nel primo capitolo della Genesi. In quella celebrazione, che rappresenta il culmine e il senso dell’esistenza della Chiesa nella storia, il rito liturgico più importante di tutti, i cristiani hanno compreso che il Creato non è semplicemente un enorme “ecosistema” basato su leggi fisiche di interdipendenza tra esseri animati e risorse naturali, ma è portatore di un senso più grande, è l’immagine di quella casa eterna che è il cuore di Dio e a cui tutti siamo destinati. Prenderci cura della nostra vita terrena (che si chiama così proprio perché ha dimora sulla Terra ed è radicata nella terra) è un segno di eternità, è il nostro modo di entrare già in quella vita eterna, che non è semplicemente ciò che viene dopo la morte, ma il grembo d’amore che ci genera continuamente come umanità, giorno dopo giorno.

E allora ecco la radice sociale dell’impegno nella cura dell’ambiente da parte dei cristiani, quella radice che sta animando queste prime settimane del pontificato di papa Leone XIV, nelle cui parole cogliamo una pacata e coerente fedeltà all’intento di mettersi sulla scia del Papa della Rerum novarum, ovvero del Papa che ha indicato le radici teologiche dell’impegno nella società da parte dei battezzati.

Ebbene, sottolinea Prevost con il suo stile teologicamente e spiritualmente fondato, farsi carico della questione ambientale non è un’ossessione da epoca post-petrolifera, ma una precisa necessità di giustizia. Perché? Perché non tutti pagano allo stesso modo il conto delle iniquità prodotte da uno sfruttamento squilibrato delle risorse o delle conseguenze nefaste dei conflitti armati o ancora dei giochi di potere che fanno del controllo delle materie prime un’arma di dominio e di supremazia. Non tutti subiscono in modo uniforme le ferite di una Terra che «sta cadendo in rovina» (una rovina, specifica il Papa, dovuta anche alle attività antropiche): i primi a vedere minacciata la propria dignità (sì la dignità di figli di Dio e quindi di sorelle e fratelli di ogni essere umano) sono i poveri, gli ultimi, gli emarginati. Un esempio su tutti: le popolazioni indigene, indicate dal Papa come simbolo di tutti coloro cui viene imposto di vivere ai margini della storia, mentre i “grandi”, ad esempio, cercano di garantirsi l’accesso alle “terre rare” sulla pelle delle popolazioni minacciate da bombe e droni.

Dunque ecco perché i cristiani parlano della questione ambientale: per loro, nota bene Leone XIV, è prima di tutto una questione di «giustizia sociale, economica e antropologica». Lo hanno capito mettendosi – attraverso gli atti che da sempre qualificano la loro vita da credenti – ai piedi della Croce di Cristo e alla luce del Risorto. Lì hanno imparato a farsi carico dell’intera umanità e, soprattutto, a prendersi le proprie responsabilità. Ovvio, in definitiva, che sia preciso dovere della Chiesa ricordare ai potenti e ai “grandi” che ogni loro scelta ha precise conseguenze soprattutto sull’esistenza quotidiana dei più piccoli.

 

Autore

Matteo Liut