Il 7 Agosto 1420 ha inizio la costruzione della Cupola di Santa Maria del Fiore, Duomo di Firenze. Un’opera già prevista a completamento del primo progetto di Cattedrale pensato da Arnolfo di Cambio nel 1298 per sostituire l’antica Basilica di Santa Reparata e conferire nuovo ed alto prestigio alla città di Firenze; ma che, a causa delle variazioni subite dal progetto durante i 120 anni che, fra alterne vicende, occorsero per il completamento della Cattedrale, si trovò ad essere edificata su un “tamburo” a forma ottagonale irregolare dalle dimensioni estremamente più grandi rispetto al progetto originario, risultando così necessaria una copertura talmente smisurata che nessun architetto dell’epoca era in grado di immaginare neanche il metodo con cui realizzarla.

Alcuni progetti proposti prevedevano una serie di colonne che, da terra, ne sorreggessero il peso spaventoso; un altro progetto, bizzarro e scaltro allo stesso tempo, prevedeva che venisse riempito il tamburo da una montagna di sabbia mista a fiorini d’oro che, al termine dei lavori, sarebbe stata volentieri asportata da volontari allettati dalla presenza delle monete miste alla sabbia, lasciando così in piedi la cupola edificata sopra di essa. Anche sulla forma da conferire alla cupola non c’era comunanza di opinioni: a tutto tondo, come Santa Sofia di Costantinopoli, a sesto acuto, piramidale, eccetera: un grave dilemma che rendeva fino a quel momento utilizzabile solo il corpo centrale della Cattedrale, mantenuto separato dalla crociera, ancora a cielo aperto, da un diaframma in muratura.

Tra i vari architetti che proposero all’Opera del Duomo la propria candidatura ci fu Filippo Brunelleschi (Firenze, 1377 – ivi, 1446) artista, scultore, orafo ed architetto già molto noto in città sin da quando, ventiquattrenne, aveva partecipato insieme a Lorenzo Ghiberti al concorso per realizzare le porte in bronzo del Battistero. Trascorse lunghi anni di lavoro col pensiero sempre rivolto “…di trovar modo, se e’ si potesse, a voltare la cupola di Santa Maria del Fiore di Fiorenza”. Studiò e disegnò ogni espressione dell’architettura classica che trovò in Roma: dai ponti, ai templi, alla Rotonda, oggi chiamato Pantheon, che sarà la sua principale fonte d’ispirazione per la definizione del suo progetto. Ma nonostante il ricco curriculum artistico che già aveva alle spalle, Ser Filippo dovette fare decine di concorsi, bozzetti, schizzi e modellini prima di vedersi assegnare la progettazione e la direzione dei lavori della Cupola. E siccome i tempi che i Magistrati si stavano prendendo per decidere si stavano allungando esageratamente, Ser Filippo partì l’ennesima volta per Roma, dove si era procurato un altro incarico. Per guadagnarsi da vivere. Ma soprattutto per impreziosirsi agli occhi degli Operai del Duomo, “…pensando con più riputazione avere a esser ricerco di fuora che non arebbe fatto in Fiorenza se lo avessino richiesto”. Una volta ottenuto l’incarico, Brunelleschi dovette poi lottare contro la continua diffidenza dei suoi concittadini, contro l’invidia dei colleghi, contro Lorenzo Ghiberti, messogli accanto dagli Operai del Duomo perché non si fidavano di un uomo da solo per un’impressa del genere; lottò contro le paure dei suoi operai sospesi nel vuoto, gli scioperi, le rivendicazioni salariali, le perenni incertezze dei committenti di aver effettivamente incaricato la persona giusta.

È difficile descrivere le innumerevoli difficoltà tecniche incontrate da Brunelleschi durante la costruzione della Cupola, ed ha del miracoloso vedere l’ingegno con cui quest’uomo realizzò macchinari e congegni per risolvere ogni ostacolo: sistemi di argani e carrucole, ancora visibili nel Museo dell’Opera del Duomo, per ottimizzare il sollevamento di pesi a più di cento metri dal suolo “…ché un sol bue tirava su come sei paia…”, sistemi di protezione per l’incolumità dei lavoratori, cucine e mense a vari livelli di altezza per evitare le perdite di tempo dovute alla discesa per andare a mangiare (in alcuni punti all’interno della Cupola si possono ancora notare gli annerimenti dovuti alla presenza di forni e fiamme vive), sistemi di puntamento ottico per controllare a distanza l’allineamento dei mattoni collocati “a spina di pesce”, incatenamenti che spingendo verso il basso mantenessero salda la fabbrica nella sua edificazione, un sistema di distribuzione dei pesi che dopo 600 anni lascia ancora sbalorditi ingegneri e calcolatori elettronici.

E quali sono le doti che hanno reso possibile questo prodigio? Ingegno? Intuizione? Spregiudicatezza? Leggendo il racconto fatto da Giorgio Vasari, che abbiamo già citato più volte, si ha quasi l’impressione di una serie di miracoli, se non di meri colpi di fortuna, che hanno portato alla realizzazione del monumento fiorentino più famoso nel mondo; in realtà Brunelleschi riuscì a combinare anche sistemi di calcolo molto complessi, basati ampiamente sull’utilizzo delle proporzioni dettate dalla cosiddetta “sezione aurea”, anche grazie alle sue frequentazioni con famosi matematici dell’epoca, tra tutti Paolo dal Pozzo Toscanelli, il quale, grazie alle nuove misurazioni da lui effettuate tramite lo “gnomone” collocato nella cupola, realizzò successivamente le carte geografiche che permisero ad Amerigo Vespucci di identificare come “nuovo continente” le terre su cui ebbe la ventura di approdare Cristoforo Colombo.

Durante gli anni dedicati all’edificazione della Cupola, Brunelleschi progettò e realizzò numerosi edifici civili e religiosi, in Firenze ed altrove, ma non riuscì a vedere terminata l’opera a cui aveva dedicato la più alta espressione del suo ingegno: restava il problema della chiusura della cupola tramite una lanterna, che lui progettò in marmo pieno, volendola realizzata estremamente pesante in modo da bilanciare l’immane spinta verso l’alto delle due cupole autoportanti sovrapposte. L’elenco degli aggettivi che potremmo usare per definire questo capolavoro del genio umano sarebbe lunghissimo e tuttavia incompleto: preferiamo quindi concludere questo omaggio al capolavoro di Filippo Brunelleschi tramite le parole di Giorgio Vasari, primo storico dell’arte incaricato di descrivere le bellezze prodotte dall’ingegno degli artisti Fiorentini.

“E perché non ebbe tempo di vita, per la vecchiezza, di potere tal lanterna veder finita, lasciò per testamento che tal come stava il modello murata fusse, e come aveva posto in iscritto; altrimenti protestava che la fabbrica ruinerebbe sendo volta in quarto acuto, che aveva bisogno che il peso la caricasse, per farla piú forte. Il quale edifizio non poté egli innanzi la morte sua vedere finito, ma sí bene tiratone su parechi braccia. Fece bene lavorare e condurre quasi tutti i marmi che vi andavano, de’ quali, nel vederli condotti, i popoli stupivano che e’ fussi possibile che egli volessi che tanto peso andassi sopra quella volta. Et eraci opinione di molti ingegnosi che ella non fussi per reggere, e pareva loro una gran ventura che egli l’avessi condotta in fin quivi, e che egli era un tentare Dio a caricarla sí forte. Filippo sempre se ne rise, e preparate tutte le machine e tutti gli ordigni che avevano a servire a murarla, non perse mai tempo con la mente, di antivedere, preparare e provvedere et a tutte le minuterie, infino che non si scantonassino i marmi lavorati, nel tirarli su; tanto che e’ si murò tutti gli archi de’ tabernacoli coi castelli di legname, e del resto, come si disse, v’erano scritture e modelli. La quale opera quanto sia la sua bellezza, ella medesima ne fa fede, per essere d’altezza da ‘l piano di terra a quello della lanterna, braccia 204 e tutto il tempio della lanterna braccia 36, la palla di rame braccia 41/2. E si può dir certo che gli antichi non andorono mai tanto alto con le lor fabbriche, né si messono a un risico tanto grande che eglino volessino combattere co ‘l cielo; come par veramente che ella combatta: veggendosi ella estollere in tanta altezza, che i monti intorno a Fiorenza paiono simili a lei. E, nel vero, pare che il cielo ne abbia invidia, che di continuo le saette tutto il giorno la percuotono, parendoli che la fama sua abbia quasi vinto l’altezza dell’aria”.

 

Autore

Marco Crisci