STORIA DELLA PARTE GUELFA
L’Ordo Partis Guelfae, ovvero l’Ordine dei Cavalieri di Parte Guelfa di Firenze, inizialmente denominato Societas Partis Ecclesiae, venne formalmente istituito grazie al beato Papa Clemente IV nel 1266 con la concessione dei sigilli e delle insegne papali. Privato delle proprie funzioni con il motuproprio granducale di Pietro Leopoldo I di Toscana del 22 giugno 1769, ma mai soppresso dall’autorità pontificia, venne riattivato, in base all’ordinamento repubblicano, con la denominazione di Arciconfraternita di Parte Guelfa, con atto pubblico del 25 marzo 2015, ricorrenza dell’antico Capodanno Fiorentino, in virtù dell’antico possesso di stato giuridico in Firenze, con la benedizione del cardinale arcivescovo Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, e con l’approvazione statutaria di Dario Nardella, sindaco della città. Parte Guelfa, grazie all’approvazione del nuovo statuto da parte dell’istituzione comunale avvenuta il 26 luglio 2015 si è aperta al mondo accogliendo aderenti di ogni nazionalità e confessione religiosa, ed è tornata in attività occupandosi in via preminente di salvaguardia ambientale e di tutela delle tradizioni equestri legate alle antiche manifestazioni fiorentine come la Giostra del Giglio, la Giostra di Madonna Libertà, la Fiorente, il Palio dei Cocchi, il Calcio storico, lo Scoppio del Carro ed altre. I membri dell’Arciconfraternita Parte Guelfa, sono denominati Confratelli e Consorelle e la sede istituzionale è stabilita presso lo storico Palagio dei Capitani di Parte Guelfa in Piazza di Parte Guelfa a Firenze.
Almeno sin dalla metà del Duecento – da quando cioè le fonti ne rendono possibile lo studio – le parti guelfa e ghibellina di Firenze appaiono come formazioni abbastanza aperte e permeabili tanto all’adesione di nuovi membri quanto all’abbandono degli antichi fautori. Dopo la caduta dell’ultimo regime ghibellino ed il definitivo passaggio del Comune al campo guelfo, avvenuto nel 1266, la fazione imperiale registrò, con ogni probabilità, un numero massiccio di defezioni, che la indebolirono progressivamente, trasformandola in una piccola comunità di fuoriusciti, senza alcuna chance di rivalsa e spesso proiettati verso interessi e terre lontani dalla città di origine. Nel 1280, tuttavia, gli accordi stipulati con i guelfi sotto l’egida della Chiesa e grazie alla mediazione del Cardinal Latino Malabranca consentirono il ritorno dall’esilio di molti ghibellini, dietro garanzia della cancellazione di bandi e condanne e del riconoscimento dei diritti politici, questi ultimi ratificati mediante l’instaurazione di un regime bipartitico. In effetti solo poche casate fedeli agli Imperatori – invero le più autorevoli e rappresentative – rifiutarono la pacificazione, preferendo vivere fuori dalla madrepatria e condurre una lotta senza speranza, anziché sottomettersi, mentre molte altre famiglie già loro alleate furono velocemente cooptate nel governo dei Priori delle Arti, espressione delle corporazioni bancarie mercantili e manifatturiere, che in breve tempo sostituì l’artificiosa ed effimera costruzione voluta dal Cardinal Latino. Il processo di assimilazione di guelfi e ghibellini in un nuovo ceto dirigente proseguì sino ai primi anni del Trecento, allorché la divisione del fronte guelfo tra bianchi e neri riportò in auge le antiche differenze. La vittoria dei neri, propugnatori di un guelfismo estremo, sui bianchi, maggiormente propensi all’intesa con i sostenitori dell’Impero, provocò la cacciata di questi ultimi ed il loro ulteriore avvicinamento ai ghibellini ribelli, cui fecero seguito violenze e devastazioni in molte zone del territorio fiorentino ed assalti contro castelli e centri fortificati. Sebbene il governo cittadino non corresse mai un vero pericolo di essere sovvertito, fuori dal circuito delle mura urbane la situazione rimase critica almeno sino al 1308, quando scomparvero gli ultimi esponenti radicali dei neri e la vita politica riacquistò una parvenza di normalità. Il progressivo sbandimento dei ghibellini ed il loro reintegro – seppur parziale – nelle attività pubbliche riprese dopo la fine dell’oltranzismo guelfo, ed anzi, paradossalmente, trasse nuovo impulso dalle crisi manifestatesi in occasione della discesa in Italia dell’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo e del tentativo egemonico di Castruccio Castracani Antelminelli da Lucca, rispettivamente negli anni Dieci e Venti del Trecento, allorché i rettori cittadini avvertirono la necessità di dividere il fronte degli avversari adottando un atteggiamento conciliante e varando un’amnistia generale, dalla quale furono esclusi soltanto gli oppositori irriducibili. La strategia ebbe successo, ed in un modesto lasso di tempo consentì il logoramento della parte estrinseca, di cui rimanevano sporadiche tracce ancora agli inizi degli anni Quaranta, ma che di fatto era venuta meno al termine degli anni Venti in concomitanza con la morte del Castracani e con la partenza del successore del defunto Arrigo VII, ovvero l’Imperatore Ludovico IV di Baviera. In sostanza è possibile affermare che a Firenze il dualismo tra guelfi e ghibellini, già decaduto alla fine del Duecento, venne superato in via definitiva nei primi decenni del secolo successivo, come indica altresì la scomparsa della Parte Ghibellina, le cui ultime attestazioni certe sono di poco posteriori alla pace del Cardinal Latino, e la parallela istituzionalizzazione della Parte Guelfa, esistente in forma autonoma sin dai tempi dell’esilio e formalmente riconosciuta dagli statuti del 1322. Occorre sottolineare come in tale contesto scomparvero le leggi specifiche disponenti l’esclusione dei ghibellini dalle magistrature cittadine, senza dubbio emanate sin dal 1266 e probabilmente cassate nel 1280, a seguito degli accordi sanciti dal legato pontificio, per lasciare il posto ad una congerie di norme che riservavano l’esercizio degli uffici pubblici ai soli guelfi, tra i quali, però, erano annoverati molti antichi seguaci della fazione imperiale, ormai del tutto redenti. Questo quadro di soluzione della dicotomia tra le parti e di assimilazione degli ex ghibellini nel ceto dirigente comunale, tuttavia, cambiò bruscamente nel corso degli anni Quaranta, per effetto di un mutamento drastico ed imprevisto dello scenario politico. Nel 1342, infatti, il regime di stampo oligarchico, che sin dal 1308 aveva retto la città, entrò in una crisi irreversibile, culminata con il ricorso ad una signoria temporanea affidata ad un principe angioino. La caduta di quest’ultimo, avvenuta nel 1343, determinò la nascita di un governo allargato, nel quale, accanto ai membri del patriziato cittadino – numericamente in minoranza – confluirono anche esponenti delle arti minori ed individui e famiglie di recente immigrazione, alterando in tal modo i tradizionali rapporti di forza e gli equilibri interni. Per un breve periodo, corrispondente al quinquennio 1343-1348, gli esecutivi rispecchiarono nella composizione e nella conduzione questo nuovo stato di cose, finché lo scoppio dell’epidemia di peste nel 1348 – la celeberrima Morte Nera – non causò la morte di molti dei novi homines recentemente abilitati alla guida del Comune, consentendo, o, meglio, favorendo, una ripresa degli oligarchi, da qualche anno in ombra, ed il loro reinserimento, in quantità cospicua, nelle borse da cui venivano tratti i nominativi dei magistrati cittadini. Gli esiti di questa riforma elettorale, dal carattere assolutamente straordinario, si manifestarono appieno nei tre decenni successivi, durante i quali si fronteggiarono due schieramenti abbastanza definiti negli intenti, anche se eterogenei nella composizione: l’uno favorevole al patriziato e ad una conduzione politica ristretta, nonché contrario alla partecipazione di immigrati recenti ed artefici minuti alla cosa pubblica, e perciò descritto come “oligarchico”, l’altro sostenitore di un ceto dirigente allargato e comprendente nuovi cittadini ed uomini immatricolati nelle corporazioni minori, e quindi convenzionalmente definito “democratico”. Al quadro generale così delineato – invero già di per sé alquanto complesso – occorre altresì aggiungere le attività di due fazioni, guidate dalle famiglie degli Albizi e dei Ricci e formate dai loro alleati ed accoliti, le quali per il ventennio che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta supportarono rispettivamente il fronte oligarchico e quello democratico. Vari indizi, poi, dimostrano che, almeno dal 1347, gli oligarchi si erano stretti attorno alla Parte Guelfa, già in antiquo roccaforte dell’aristocrazia e dei magnati, prendendone di fatto il controllo ed imponendosi sui guelfi moderati, bendisposti verso il fronte democratico, e talvolta esponenti di quella posizione, per conferire nuovi poteri all’associazione e renderla quanto più possibile autonoma ed indipendente dal Comune. Tale indirizzo, perseguito con grande costanza per quasi trent’anni, ebbe come scopi principali il risanamento economico della Parte, il suo affrancamento dalla giurisdizione delle magistrature cittadine, e, soprattutto il ripristino delle leggi contro i ghibellini. Quest’ultimo obiettivo, ottenuto sin dalla fine degli anni Quaranta ed accompagnato dalla rinascita di un guelfismo intransigente, era stato pensato dagli oligarchi in funzione di una strategia esclusoria volta contro gli avversari democratici, i quali, accusati in modo più o meno strumentale di essere ghibellini, ovvero discendenti di fautori dell’Impero, potevano essere proscritti ed estromessi dalla politica attiva. Il revival del massimalismo guelfo ebbe successo sia grazie alle pressioni esercitate dai Capitani di Parte sugli esecutivi comunali quanto in virtù di una complessa crisi nelle relazioni fra stati, che vide l’emergere di un concreto pericolo per l’indipendenza di Firenze rappresentato dall’espansionismo dei Visconti di Milano, in passato vicari degli Imperatori. In effetti l’applicazione delle norme contro i ghibellini, demandata agli organi giudiziari del Comune, non ebbe grandi sviluppi, poiché i processi per ghibellinismo, avviati su denuncia sia di ufficiali della Parte Guelfa che di privati cittadini, ad essa legati o meno, furono pochi, oltre che concentrati nell’arco di un venticinquennio e, soprattutto, risolti per lo più con sentenze assolutorie. Giova ricordare come gli stessi uomini della societas guelforum fiorentina esitassero a farsi promotori di tali accuse nelle corti comunali, forse perché ben consapevoli dell’influenza in ambito giudiziario della Signoria, non sempre a loro favorevole, e come parimenti agissero anche i privati. Del resto l’analisi prosopografica degli imputati in questi procedimenti indica che solo un’esigua minoranza aveva avuto legami con l’antica pars Imperii, o con suoi sostenitori, e sempre mediante vincoli familiari vecchi di una o più generazioni, dimodoché è possibile affermare che la legislazione antighibellina era realmente un’arma politica degli oligarchici contro i democratici. La scarsità di risultati nell’offensiva giudiziaria rivolta contro questi ultimi convinse infine i partecipi ad introdurre una nuova pratica esclusoria, di maggior efficacia perché totalmente demandata all’arbitrio degli ufficiali guelfi: l’ammonizione. La nuova procedura poteva colpire tanto singoli individui quanto intere famiglie e consorterie, era basata su una valutazione insindacabile dei Capitani di Parte e di altri membri dell’associazione scelti ad hoc, ed aveva importanti riflessi in campo legale poiché rivestiva il valore di prova nei processi per ghibellinismo. Grazie alle ammonizioni, comminate per un ventennio a partire dal 1358, allorché vennero impiegate per la prima volta, centinaia di persone ed intere consorterie persero i diritti politici, venendo così eliminate dalla contesa per le cariche pubbliche, ed in svariate occasioni l’attività dei governi fu piegata al volere dei partefici, che non ebbero remore a minacciare apertamente la proscrizione dei membri di quegli esecutivi. Come è facile immaginare, gli aderenti allo schieramento democratico tentarono di limitare lo strapotere degli uomini della Parte e di arginare l’oltranzismo guelfo che gli oligarchici propugnavano, ma la tattica di aumentare il numero e di alterare la composizione degli uffici della societas guelforum, originariamente adottata su iniziativa dei Ricci, si dimostrò prima inutile, mercé l’attento controllo degli scrutini operata dagli avversari, ed infine inapplicabile, quando, agli inizi degli anni Settanta, l’associazione divenne completamente autonoma ed indipendente dal Comune. Soltanto l’avvio di una forma parallela di esclusione extragiudiziale, ovvero l’inserimento nel novero dei magnati – e la conseguente perdita della rappresentanza nei collegi degli esecutivi – di quei popolani che avessero assunto comportamenti sopraffattori e violenti, o che di simili crimini fossero stati denunciati e ritenuti colpevoli dalle autorità cittadine, valse a contrastare il diffondersi delle accuse di ghibellinismo e delle ammonizioni. È opportuno sottolineare come l’introduzione di tale provvedimento cadesse nel 1372, in uno dei momenti di massimo fulgore della Parte Guelfa, ma anche nell’anno che vide l’emarginazione dalle principali magistrature comunali dei vertici delle famiglie Albizi e Ricci, le quali, alleandosi, avevano posto fine alla lotta di fazione, determinato un pericoloso accentramento di potere, e lasciato privo di una guida riconosciuta i democratici. Nonostante la reazione di questi ultimi, la seconda metà del decennio registrò una recrudescenza di ammonizioni ed un acuirsi dello scontro con gli oligarchici raccolti attorno alla società dei guelfi fiorentini, finché, nel 1378, la tensione giunse al culmine, ed una Signoria di ispirazione democratica, vista l’impossibilità di giungere ad un’intesa con i partefici in materia di proscrizioni, decise un rafforzamento degli Ordinamenti di Giustizia e delle norme contro i magnati. Dinanzi alla prospettiva di essere definitivamente emarginati dalla vita politica i guelfi estremisti risposero con un colpo di mano, cosicché alcune centinaia di loro si riunirono armati presso il Palagio di Parte, ma infine desistettero da ogni iniziativa violenta e fuggirono dalla città. La defezione degli oligarchi segnò la fine del predominio della Parte Guelfa e delle attività esclusorie che attorno ad essa ruotavano, ma precedette di poco anche la caduta del regime, in auge sin dal 1343, rovesciato poche settimane dopo dal tumulto dei ciompi.