Dallo Xinjiang al Sahel: come la Cina esporta la sua “Muraglia Verde” per riforestare l’Africa e conquistare influenza geopolitica. Un’ampia cintura verde attorno al deserto del Taklamakan nello Xinjiang, regione tra le più grandi della Cina, nato per contrastare la desertificazione e sostenere l’economia locale. Nel cuore dello Xinjiang, la regione più grande della Cina che si trova tra Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan, India, la regione autonoma del Tibet e le province del Qinghai e del Gansu. E’ stata realizzata una riforestazione nel deserto del Taklamakan per contrastare la desertificazione e proteggere insediamenti e infrastrutture. Utilizzando tecnologie avanzate, droni, sensori e sistemi di irrigazione intelligenti, Pechino ha costruito un vero e proprio muro verde, simbolo della sua visione ambientale e strategica.
Ora questo modello viene esportato in Africa, con uno sguardo preciso al Sahel, dove prende forma un’altra Muraglia Verde: quella africana. Un’opera ambientale lunga 8.000 km che la Cina vuole trasformare in un pilastro della sua influenza globale. La Grande Muraglia Verde africana è un progetto di riforestazione del Sahel lanciato dall’Unione Africana, pensato per contenere l’avanzata del Sahara, migliorare la sicurezza alimentare e frenare le migrazioni ambientali. Il Sahel attraversa Paesi strategici come Senegal, Mali, Niger, Ciad, Sudan ed Etiopia, ed è una regione fragile ma ricchissima di risorse naturali. Litio, uranio, oro, grafite e terre rare sono fondamentali per la transizione energetica e l’industria delle batterie elettriche. Il Sahel è quindi diventato un campo di battaglia geopolitico tra potenze globali: USA, Francia, Russia, Turchia e ora Cina.
Pechino intende integrare il Sahel nella Belt and Road Initiative (BRI), trasformando la cooperazione ambientale in una piattaforma per investimenti infrastrutturali, controllo delle rotte logistiche e accesso privilegiato alle risorse. Il modello è lo stesso sperimentato nel deserto cinese del Taklamakan: grandi opere ambientali abbinate a costruzione di strade, ferrovie, dighe ed energia verde. Già oggi imprese statali cinesi operano in Etiopia, Ciad e Sudan, mentre il governo cinese ha promesso 15 miliardi di dollari di investimenti green in Africa entro il 2030. Dietro il linguaggio della sostenibilità ambientale, la Cina sta costruendo una nuova forma di influenza globale attraverso l’ambiente. La sua proposta è chiara: niente basi militari, niente imposizioni, ma alberi, infrastrutture e know-how. Una strategia di soft power verde, che punta a conquistare fiducia, risorse e stabilità geopolitica.
Nel contesto di colpi di Stato, instabilità politica e competizione globale nel Sahel, il progetto cinese rappresenta una sfida diretta al modello occidentale di aiuto e intervento. E rischia di ridisegnare gli equilibri africani nei prossimi anni. Se la Cina riuscirà a riforestare il Sahel, avrà realizzato molto più di un’azione ecologica. Avrà esteso la Belt and Road Initiative in una delle aree più delicate del pianeta, costruito consenso politico, conquistato accesso alle materie prime strategiche e ridefinito i rapporti tra Africa e potenze globali. La “Muraglia Verde africana” rischia così di diventare il simbolo di una nuova frontiera geopolitica, dove ambiente, sicurezza, industria e diplomazia si intrecciano in modo sempre più stretto.
Autore
Elena Tempestini